Diario 1 gennaio 1922. Ho chiuso l’anno vecchio, questa notte, con un discorso di propaganda: ho iniziato il nuovo con un altro discorso. Cosí si saldano le date. Non vi è distacco che sul calendario. Se guardo al ’21 vedo lo sviluppo incalzante della rivoluzione. Crescendo irresistibile. Conquista in larghezza e profondità. Qui in provincia due grandi organizzazioni: quella dei Fasci saldamente uniti nella Federazione, e quella sindacale, che è la prima del genere in Italia: dopo la precipitosa rovina politica delle leghe rosse non potevamo lasciare gli operai alla mercé degli egoismi padronali. Delicato congegno è questa organizzazione: la mano d’opera nel ferrarese è esuberante, e solo la disciplina sindacale assicura a tutti il lavoro e il pane. Poi, sarebbe possibile un movimento rivoluzionario che vuole il dominio integrale dell’Italia, senza tener conto degli operai? Su quaranta milioni di italiani, quanti sono i prestatori d’opera? La grande Proletaria! Debbo dire che il popolo ci comprende piú degli altri. Noi non usciamo dalle classi privilegiate. La gran massa dei combattenti fascisti: gioventú che vuol lavorare: piccola borghesia già proletarizzata dalla tragica situazione della guerra e del dopoguerra, forse piú disagiata dell’operaio. La solidarietà con le classi povere è in atto. Il Fascismo, se vuol vincere, non deve creare privilegi, anzi abbattere gli antichi. Si tratta di rovesciare la vecchia formula dell’uguaglianza dei diritti: instaurare l’uguaglianza dei doveri. Non solo produrre per vivere, ma vivere per produrre. Diffondiamo questi principî sul nostro settimanale: altra attività del ’21. È un bollettino di battaglia, questo Balilla: vorrei diventasse un seminatore d’idee. L’idea senza la forza è un non senso: destino ridicolo dei profeti disarmati: caricature viventi i liberali odierni: ombre che combattono per un’ombra. Ma anche la forza senza una idea è una mostruosità. Da questo punto di vista, io che ho il culto dell’azione, non dimentico Mazzini. Sono lieto di aver chiamato nel maggio scorso a Ferrara, per dirigere l’organizzazione sindacale, Edmondo Rossoni. Sono andato a Roma per parlargli e non ho fatto davvero fatica a convincerlo a trasportare le sue tende a Ferrara fascista. Ha portato con sé Casalini. Rossoni è ferrarese. Ha il dono della simpatia, la parola calda, una grande esperienza di problemi operai, insomma è un capo: ed è eternamente giovane. I lavoratori debbono sentire la spontaneità del nostro richiamo. Rossoni è il simbolo della cordialità. Ora l’organizzazione sindacale marcia da sola. Non ci dà preoccupazioni. Anche la Federazione dei Fasci funziona attraverso i suoi organi ed i suoi capi: cosí il Fascismo ferrarese non assorbe tutta l’opera mia. Posso occuparmi di questioni generali. Ogni mese, spesso ogni quindici giorni, sono da Mussolini a Milano. Incontri indimenticabili. Il Capo chiarisce e semplifica i problemi piú complicati: grande virtú di chi comanda. Inoltre è sempre affettuosissimo. Non mi lascia partire senza un abbraccio. La sua fiducia è il mio viatico. Non si può combattere senza averne la certezza assoluta. Mi dice che sono uno dei migliori. Orgoglio della lode. Ambizione di sorprenderlo, facendo piú di quanto si aspetta. Ho la certezza che aveva ragione allorché contro le esitazioni di tanti, e anche mie, ha trasformato il Fascismo in Partito. Ora lo constato di persona. Qualcuno ha rifiutato la tessera: erano i piú tiepidi. Con gli incerti non si fa una rivoluzione. Il Partito ci dà l’omogeneità, la disciplina, la snellezza dei quadri. Impossibile ubbidire a piú padroni. Essere fascista e iscritto a un altro partito è impossibile. Ormai non è piú sufficiente l’azione antisocialista. Del resto come conciliare la teoria della violenza con i principî liberali? E soprattutto come praticare la violenza e predicare il rispetto di tutte le opinioni? La verità è una sola. Chi crede di possederla deve difenderla con la vita. E chi non crede di possedere in se stesso la verità, assoluta e unica, non può essere fascista, cioè sfidare la morte. Sono cosí sicuro di essere nella verità che non so come potrei non essere fascista. Quando parlo al pubblico non faccio sforzo alcuno. È come se parlassi con me stesso. Ormai non conto piú i discorsi. La propaganda è il bisogno istintivo di chi è convinto. Mi pare assurdo che gli altri non pensino come me. Mi assale qualche volta il dubbio di essere diventato una specie di macchina da discorsi. Ma non me ne preoccupo. Il tono è tutto. Chi mi ascolta sente che non parlo per parlare, ma per combattere una battaglia. Non esiste il pericolo di diventare stereotipato per chi lotta parlando. La mia giornata continua ad essere di diciotto ore: dalle otto del mattino alle due di notte. E mi sembra sempre troppo corta. Sento la necessità di stare a contatto continuo coi fascisti. E ritengo che i fascisti debbano sentire in permanenza lo spirito del capo prossimo al loro. Hanno bisogno di essere esaltati. Lo spirito di battaglia vive sotto pressione. Il capo ne ha la responsabilità. Guai abbandonarli a se stessi! Mi chiedo che cosa ci porterà l’anno nuovo. Apparentemente gran parte del compito sembra assolto. Siamo padroni della situazione. Non solo abbiamo fiaccata la resistenza degli avversari, ma gli organi pubblici sono sotto il nostro controllo. Il Prefetto deve subire la volontà che io gli impongo a nome dei fascisti. Le Amministrazioni della intera provincia sono rette da commissari regi. L’ordine fascista è garantito dalle nostre squadre. Eppure è impossibile arrestare qui la nostra azione. Il Fascismo non è un partito statico. Le situazioni locali non contano se tutta la vita della nazione non muta. Anzi è un paradosso la provincia fascista con un Governo centrale antifascista. È il regno della illegalità permanente. Andremo dunque piú avanti e piú lontano. E tra non molto. Le provincie fasciste non debbono essere compartimenti stagni, ognuna affidata a se stessa. Il movimento nostro è unitario. Paesano ma nazionale. Bisogna conquistare la Nazione e farne un corpo solo: un solo Fascismo al comando di un solo capo. Questo sarà il compito del ’22. Intanto lavoro a trasformare le squadre in milizia. Vi riuscirò. La milizia sarà l’esercito della rivoluzione: e quale esercito! Quello di guerra, senza la mortificazione dell’estenuante trincea. Un esercito di arditi comandato da arditi. 2 gennaio. Leggo sull’ Avanti! di Capodanno il testo dell’interrogazione dell’on. Zirardini alla Camera, sulla occupazione fascista della Casa del Popolo di Ferrara. Il nostro ex-segretario della Camera del Lavoro domanda al Governo «se esista in Italia una legge protettiva della proprietà». La domanda in bocca a un socialista, che ha sempre sostenuto il principio che la proprietà è un furto, è cosí amena che ringrazio l’ Avanti! del quarto d’ora di buon umore che mi ha regalato come dono dell’anno nuovo. Che tempre di rivoluzionari, questi socialisti! Non hanno altri argomenti che i Reali Carabinieri per difendersi. E ricorrono al Diavolo per dimostrare l’esistenza di Dio! Ma sí. Il Ministro degli Interni li aiuterà a scoprire il sole dell’avvenire: nemici della proprietà, unitevi per la difesa della proprietà! Però i fascisti resteranno alla Casa del Popolo. Essa fu costruita con i danari degli organizzati, che oggi son tutti con noi. Questi non fanno che godere quanto loro compete di diritto e di fatto. 3 gennaio. Cinquanta fascisti si sono recati stamane al ponte della Bastia fra Lavezzola e Argenta per impedire agli operai rossi di passare oltre Reno a lavorare nella Bonifica. Cosí è servito il Commissario governativo della Bonifica, che pretende di riconoscere soltanto gli uffici di collocamento socialisti e rifiuta il lavoro degli operai fascisti. Alle 7 di stamane ero anch’io sul Ponte. I carabinieri hanno tentato di sgombrarlo. Ma noi eravamo in numero dieci volte superiore e bene armati, meglio forse di loro. Hanno capito che non era il caso. Si è evitato un grosso conflitto e i nostri organizzati avranno il lavoro che loro spetta se non si vuole che i lavori dei rossi siano sospesi. Sono le soluzioni energiche quelle che costano meno. Con lo stillicidio di una polemica a lungo metraggio non sarebbero mancati i cavilli e... uno spreco di inchiostro per i giornali. Il fatto compiuto è sempre un bell’argomento. Poi, siamo i piú forti perché piú decisi. E i piú forti hanno sempre ragione. 5 gennaio. Si annuncia che Lenin verrà in Italia per la Conferenza di Genova. È vero? Leggo la notizia anche sul Popolo d’Italia, che si appella alla disciplina dei fascisti affinché il dittatore rosso percorra indisturbato la penisola. Ho scritto a Mussolini assicurandolo per quanto riguarda la mia provincia. Lenin come comunista e fondatore del bolscevismo è nemico nostro. Ma la Russia è un paese col quale l’Italia può aver interesse ad intendersi sul terreno della politica estera. Lenin viene in Italia come Capo dello Stato russo? Il saluto delle armi a Lenin! I fascisti, per l’occasione, canteranno i ritornelli antileninisti solo nelle sedi dei Fasci... 8 gennaio. Da tre giorni sono a Oneglia dal generale Gandolfo assieme a Dino Perrone Compagni. Abbiamo buttate le basi dell’organizzazione delle squadre in «Milizia Fascista». Domani parto per presentare il lavoro a Mussolini e alla Direzione del Partito. 13 gennaio. La Confederazione del Lavoro desidera collaborare col Governo alla restaurazione economica del paese purché il Governo sia forte. Cosí dicono i Confederali in una intervista col Corriere della Sera. È la teoria di Zirardini che trionfa. La rivoluzione socialista col benevolo aiuto dei carabinieri. Lo «Stato forte», infatti, significa Governo antifascista. È una teoria comoda, anche se grottesca. È mutata la musica dal tempo della occupazione delle fabbriche! Una farsa che si potrebbe intitolare: «i miracoli della paura». Ma una volta fatto il servizio, il carabiniere non farebbe la fine della giraffa che levò l’osso dalla gola del leone? Senza l’osso fascista le mandibole socialiste funzionerebbero a meraviglia. 17 gennaio. Hanno assassinato Florio a Prato! Non posso pensare, senza acuto dolore, allo scempio del mio povero amico. Era un ragazzo ancora, uno spirito gentile. Quante tombe che si spalancano ai nostri piedi! Come al tempo della guerra! Scompaiono i migliori. Si spezzano bruscamente le amicizie piú affettuose. Florio era andato in guerra volontario a 15 anni. Tutto fiamma, fede certa. Lo ha ucciso un anarchico disertore: l’opposto umano di Florio. Un reietto, traditore della Patria, in guerra e in pace. Un cinico. Un distruttore. Un bruto. Il destino ha dato dunque ragione alla bestialità dell’istinto selvaggio contro la purezza dello spirito? Alla viltà contro il coraggio? Alle tenebre contro la luce? Florio era qui da me, a Ferrara, qualche tempo fa: era venuto a prendere bombe per la difesa della Toscana e aveva portato via gli ultimi rimasugli del deposito di Santa Lucia di Tolmino dove avevo abbondantemente attinto nel 1920. Era partito col suo bottino, pazzo di gioia. Ma il volontario di guerra, il combattente eroico, l’impetuoso fascista, nulla potevano contro l’insidia di un assassino. Non bisogna cedere al dolore. Reagire. Vendicarlo. Faremo, insieme, con l’opera nostra, anche la sua. Questa è certo la voce del destino. È morto per far noi piú risoluti. 21 gennaio. Mussolini commenta il presunto collaborazionismo dei Confederali. Articolo incisivo, al cromo, tutto scatti e nervi, scarnificatore: bellissimo. Questi confederali son messi sulla corda e ballano come burattini. Sotto, guarda e ride l’Italia. Quando un movimento come quello socialista, illegale per natura e per definizione, è costretto a chiedere aiuto ai custodi della legge, non rappresenta piú che un elemento di farsa. D’Aragona, Rigola, Buozzi, possono domandare, per finire degnamente la loro carriera, un posto di fiducia nei ruoli della Pubblica Sicurezza. Da demagogo a confidente della Questura il passo è breve. Il demagogo è sempre doublé di una spia. Il socialismo italiano darebbe qualunque somma per la gioia di comandare per un’ora un plotone di guardie regie. 24 gennaio. Ieri i carabinieri hanno sparato a Formignana contro i fascisti che volevano occupare quella Camera del Lavoro, l’ultima del Ferrarese, che resiste solo perché mette in pratica i principî dei Confederali collaborazionisti, cioè collabora... con i moschetti della prossima caserma. Ma è un giuoco pericoloso. I carabinieri ubbidiscono agli ordini del Vicerè Mori, Prefetto di Bologna? I fascisti possono ubbidire alla esasperazione di cui per miracolo non hanno dato ieri la prova. Ho fatto sapere al Prefetto che i fascisti armati della mia provincia son diecimila e i carabinieri qualche centinaio. Che succederebbe se non riuscissi a trattenere le squadre nel loro desiderio di rappresaglia? I piú avviliti per l’incidente sono gli ufficiali dei carabinieri, in eterno conflitto fra la consegna e il loro sentimento. 26 gennaio. Abbiamo ieri costituito Bologna le Corporazioni Sindacali fasciste. L’ordine del giorno votato era mio. Un grande principio entra cosí trionfalmente nella realtà fascista: il Fascismo difenderà tutti i diritti che i lavoratori hanno conquistato in trenta anni di lotta. Non importa se il popolo fu deviato da falsi profeti verso ideali bugiardi. Noi non prometteremo il sole dell’avvenire, ma il pane del presente. L’essenziale era sfatare la leggenda che noi fossimo i lanzi dell’egoismo sfruttatore dei ceti privilegiati. Il Fascismo è un movimento che abbraccia tutto il popolo italiano nel quale sono da raffigurare non già due sole classi in conflitto, ma tutte le classi. Non cederemo un palmo di terreno all’ingordigia di destra, con lo stesso spirito con cui rintuzziamo implacabilmente la prepotenza di sinistra. È stata per me una grande rivincita. Nel febbraio scorso quando fondai nel Ferrarese i primi sindacati fascisti, suscitammo diffidenza. Qualcuno mi accusò di demagogia. Come sempre, il piú sincero e il piú incisivo è Mussolini. Quando venne a Ferrara nella primavera scorsa e si incontrò per la prima volta con un vero esercito di lavoratori, rimase muto e pensoso. Lo dice oggi in un articolo drammatico. Pensava: «Sono sinceri? Durerà? È possibile?» Sí, è possibile, anzi è certo. È la imponente realtà presente che tradotta in cifre dà una forza di mezzo milione di organizzati al sindacalismo fascista. Tutti ora comprendono che un regime nuovo non si crea senza approfondire e risolvere il problema economico del popolo italiano. Ho perduto Rossoni, che rimane alla testa della organizzazione nazionale dei sindacati. Ne provo dispiacere ed orgoglio. Dispiacere per la provincia di Ferrara, orgoglio per averlo noi prescelto come capo dei sindacati e designato capo del sindacalismo nazionale. Mi ha promesso che manterrà la segreteria della nostra camera sindacale e lascierà a Ferrara Casalini. 27 gennaio. Leggo sul Corriere della Sera un curioso discorso dell’on. Bevione a Torino, che mette sullo stesso piano, di fronte al Governo, socialisti e fascisti. La teoria del quasi-socialista Bonomi codificata dal quasi-nazionalista Bevione. Una pilateria. Laviamoci dunque le mani nel catino di Ponzio Pilato e lasciamo ai posteri la fatica di cercare da qual parte stia la verità, onorevole Bevione! Ma attenti! Preferiamo chi dice pane al pane e risponde con ferro al ferro. 2 febbraio. Ecco una notizia che mi mette di buon umore. Capanni si è dimesso dal partito liberale. Chi avrebbe detto che il nostro grande e grosso amico fiorentino era un liberale? Che ci stava a fare Capanni tra i suoi ex-compagni di partito? Forse era lusingato dal rispetto e dalla cautela che gli dimostravano! Non sottili sofismi e finezze causidiche sull’essere e il parere: non occhiali a stanghetta e discorsi melliflui. Quando il colosso... parlava, gli altri si trovavano subito a corto di argomenti. Capanni possedeva il piú persuasivo. Meno male che ne è uscito. Ora si sentirà a suo agio. Giovane fra giovani. 5 febbraio. È stata conquistata Misurata Marina. Ho l’impressione che la bella impresa sia frutto di un colpo di testa del Governatore della Libia. Dicono che il Governo non ne sapesse nulla. Infatti i giornali socialisti fanno un pandemonio. «La belva della guerra non è sazia di vittime.» E Scalarini disegna una iena che si avvicina a un povero scheletro atterrito per spolpargli gli ultimi rivestimenti di epidermide. Sarebbe questo il popolo italiano? Grazie del complimento. Ma forse è un autoritratto del disegnatore socialista. La paura fa l’effetto delle acque purganti: a prenderne in continuazione ci si riduce a pelle e ossa. Sciocco e delinquente. I giornali del governo procedono con prudenza. Lasciano a Volpi ogni responsabilità. Se l’operazione andrà bene, sarà merito del Ministero. Se andrà male, la colpa sarà tutta del Governatore. Ma non può andar male. Ho conosciuto il conte Volpi a Venezia. È un tipo. Me lo presentò la scorsa estate l’amico ferrarese Vittorio Cini sul viale del Lido. Barbetta a punta. Occhi a spillo. Parla sempre veneziano. Un uomo solido. Di volontà. I veneziani sono colonialisti per temperamento e per tradizione. 25 febbraio. Oggi si è chiusa la crisi ministeriale che è durata quasi un mese. Ogni giorno i giornali ci portavano la notizia di una nuova combinazione: e il giorno dopo immancabilmente ne registravano il fallimento. Son passati sullo schermo tutti i personaggi del momento: Giolitti, De Nicola, Orlando, Bonomi, isolati e a coppie, in palamidone o in negligé, a volontà. Campioni senza valore. Il naso di don Sturzo mira a prendere la funzione del naso di Cleopatra. Devia la storia, facendo saltare un dopo l’altro tutti i ministeri combinati nei corridoi del parlamento. I giornali liberali piangono come vigne tagliate. Non hanno torto. Il regime attuale si sfascia. Non resta che una collezione di statisti decrepiti che comunicano la loro paralisi al Parlamento e a tutti gli organi dello Stato. I prefetti non hanno piú bussola. Che spettacolo! Noi fascisti ce ne curiamo poco. È straordinario come i miei squadristi ignorino persino il nome dei ministri dimissionari e di quelli in carica. Una volta la politica era tutta concentrata sui cataclismi di Montecitorio. Oggi soltanto qualche centinaio di professionisti delle crisi parlamentari se ne occupa. Noi continuiamo a perlustrare le campagne, a combattere contro i nemici che non hanno perso l’abitudine di ammazzare i nostri migliori, a occuparci di dar lavoro e disciplina agli operai. Faccia Roma quel che le piace. Qui comandiamo noi. Ci interesseremo di Roma il giorno che potremo piombare su quel nido di gufi per farne piazza pulita. Però i baffi di Facta, nuovo Presidente, pescato non so come nel mazzo, sono divertenti. Mettono di buon umore il Fascismo. Li disegnano sui tavoli dei caffè. Massinelli, alla scuola degli asini, doveva averli uguali. L’Italia dei reduci dalla trincea, degli arditi, dei fascisti, deve essere governata dai baffi di Facta? Ecco una cosa che nessuno poteva immaginare. Infatti nessuno ci crede. Forse neppure Facta. Il quale annuncia la pacificazione generale. Governerà in nome della concordia. Ma quale concordia? Tra noi e gli avversari è un abisso. Non potremo intenderci mai, perché c’è di mezzo la guerra, che ha tagliato in due la storia d’Italia. È cambiato lo spirito. È cambiato il linguaggio. È cambiata la mèta dell’Italia nel mondo. E si pretende con mezzi di polizia ridurci tutti allo stesso livello! Massenzio legava un vivo a un cadavere. Non si è mai visto che il primo risuscitasse il secondo. Invece il secondo decomponeva e uccideva il primo. Noi dovremmo fare la stessa fine. I poliziotti di Facta non riusciranno a legarci alle mummie dei vecchi partiti. I baffi dell’uomo di Pinerolo ci fanno ridere: niente altro. 2 marzo. L’ Avanti! interpreta il Me ne frego. Bellissimo articolo. I nostri avversari ogni tanto diventano intelligenti. Dicono che il motto significa disprezzo d’ogni norma di governo costituito, ironia e beffa di fronte alle autorità, spavalderia da moschettieri fuori legge. Sicuro. Ben detto. Noi non abbiamo che un destino solo: svalutare nel ridicolo, fino all’assurdo, lo Stato che ci governa. Il regime attuale è il nostro obbiettivo di battaglia. Vogliamo distruggerlo con tutte le sue venerande istituzioni. Piú scandalo nasce dalla nostra azione, piú siamo contenti. Il Me ne frego dice anche che la nostra battaglia è gaia. Ci divertiamo a confondere le idee nella testa dei santoni della democrazia. E combattendo con le rivoltelle e con le bombe non siamo educati. Una rivoluzione «bene educata» non fa per noi. Ma esiste poi? È mai esistita? Una pretesa di questo genere non poteva nascere che nel cervello dei capilega. Noi li conosciamo. Terribili a parole, ma pronti a nascondersi nella caserma dei carabinieri appena un fascista fa uno starnuto. 4 marzo. Le guardie slave di Zanella hanno ucciso a Fiume il fascista Fontana, e, nel combattimento dovuto alla pronta reazione dei nostri, il legionario Meazzi. Grande fermento fra i fascisti. Noi adoriamo Fiume. È stato il primo fatto rivoluzionario del dopoguerra. La prima frattura della cosiddetta «vita costituzionale» della vecchia Italia. L’avventura della giovinezza combattente che rompe i ponti coi tristi governi di Roma. Lo squillo di allarme in Europa, dove l’Italia era vista attraverso i piagnistei di Orlando e il conformismo rinunciatario di Nitti. Fiume è nostra. Intangibile. È lo stato-simbolo della rivoluzione. Zanella è un Giolitti in sedicesimo. Lavora, d’accordo con Roma, per adeguare Fiume all’Italia ipocrita e senza ideali del dopoguerra. 5 marzo. Grande comizio per Fiume a Ferrara sulla piazza della cattedrale. Migliaia di fascisti. Mobilitazione spirituale. Tutti pronti a partire. Il Partito telegraficamente mi invita a recarmi a Fiume. 6 marzo - Fiume. Sono qui da stamani. Ho preso subito contatto coi nostri. Ho incontrato Giunta. È piombato qui da Trieste il 3, subito dopo l’assassinio di Fontana. Deliberato coi fascisti, coi legionari e con gli arditi l’assalto del Palazzo di Governo, si è impadronito di un Mas, insieme a un gruppo di risoluti e ha sparato diritto sul Palazzo invano difeso dai mitraglieri di Zanella. Ai primi colpi in pieno, bandiera bianca. Resa a discrezione di Zanella. Vittoria completa. Zanella voleva dimettersi. Che dimissioni! Giunta ha voluto che dichiarasse di espatriare per sempre. È stato cacciato come un traditore. In fondo è stato trattato fin troppo bene. I fascisti volevano sottoporlo a giudizio marziale. Troppo cavalieri, gli hanno salvato la vita. Ho abbracciato Giunta, e poiché Fiume rientra nella mia zona di Ispettore della Milizia, l’ho nominato Console sul campo. La città è piena di arditi e di legionari. Si vivono grandi giornate di passione. Il popolo ci acclama per le vie. Fiume ritorna al suo clima eroico. Il Fascio si è, come sempre, portato splendidamente. È stato il fulcro della rivolta: Antonini, cosí ardente, dalla simpatia comunicativa, instancabile; Nino Fattovich, professore di Liceo, corrispondente del Popolo d’Italia, che ha dato l’allarme; e, tra i tanti, Benagli, spirito insofferente, filofascista, romagnolo di Forlí, già comandante di autoblindate in guerra, tenente con tre medaglie d’argento. All’attacco del 3 marzo sono stati vicini a Giunta, instancabili, indomabili. Questi fascisti sono la garanzia della salvezza di Fiume. 9 marzo - Fiume. Il Comitato di Difesa Nazionale, a cui sono stato aggregato subito dopo il mio arrivo, continua a tenere le sue sedute. È un ambiente animato di ottime intenzioni, che tenta di provvedere come può all’abbandono tristissimo della città. Lo presiede l’ingegner Prodam, simpatica figura. Fu il primo a precipitarsi a Venezia, non appena firmato l’armistizio, su una piccola imbarcazione a motore, a richiedere l’interessamento del Comando marittimo per la città. Ha 40 anni, esile, magro, tutto fuoco interiore. Sono arrivati De Stefani, Lancellotti, Bastianini, Teruzzi che partecipano alle riunioni del Comitato. Incontro Rosboch, direttore della sede locale della Banca d’Italia. Lo conobbi in occasione dell’insediamento di Zanella, quando fui qui come osservatore inviato dal Partito. È un uomo acuto, dalla parola incisiva. Giuriati è partito per Roma. Caro e buon camerata nostro! Cosí fiero e diritto! Otterrà qualche cosa dai malvoni della Capitale? Nessuno potrebbe perorare come lui la causa della città martire. Egli ha l’accento dell’apostolo. Ma la nostra fiducia nel Governo è scarsissima. Fiume deve provvedere da sola al proprio destino. 12 marzo - Fiume. Tutti sono concordi nell’insistere sulla nomina di Giuriati a Commissario Straordinario del Governo di Fiume. Ma le notizie che giungono da Roma ci confermano nelle nostre previsioni pessimistiche. Il Governo centrale non ne vuole sapere. Si adducono ragioni di carattere internazionale. La nomina di un deputato italiano, dicono i giornali ufficiosi, urterebbe la Jugoslavia, la quale ha già fatto un passo diplomatico a Roma: piú zelanti dei jugoslavi, i giornalisti antifiumani d’Italia dicono che bisogna rispettare l’indipendenza dello Stato fiumano, sanzionata a Rapallo. Ma i rapallisti non sanno o non dicono che vi sono infiltrazioni jugoslave in città, ben piú positive del nostro presunto attentato morale alla indipendenza di Fiume. Del resto Giuriati, per facilitare la nomina a Commissario Straordinario di Governo, non esiterebbe a dare le dimissioni da deputato. Alle riunioni presso il Comitato di Difesa partecipano i rappresentanti di tutti i partiti patriottici; e tra l’altro i repubblicani. Giunta ha investito giorni fa violentemente il repubblicano presente. Temevamo venissero alle mani. Per fortuna tutto è finito bene. Le differenze di mentalità tra i membri del Comitato sono veramente un grosso inciampo. Anche limitandoci alla esperienza di Fiume, si dimostra come sia difficile agire con efficacia politicamente con un governo di concentrazione. Primo requisito di un Governo: l’omogeneità e un capo unico. Si fa del resto una vita di intensa solidarietà. Teniamo le nostre sedute in Municipio, intorno a un grande tavolone. Lo Stato fiumano ci passa un bicchier d’acqua e un pacco di sigari della Regia. Fuori montano la guardia gli arditi, le Camicie nere e azzurre. Presidiano il Palazzo con una buona scorta di bombe a mano. Abitiamo all’Albergo Europa. Andiamo a consumare i nostri pasti frugali all’«Ornitorinco». Ci imbottiamo talmente di discussioni che arriviamo spesso al ristorante senza appetito. Si fanno sempre piú insistenti le voci di concentramenti militari jugoslavi al confine. Predispongo affinché siano mobilitate le squadre di tutta la mia zona. Qui su mia proposta il comando militare è stato affidato, dal Comitato di Difesa, al tenente Cabruna, ufficiale dei carabinieri che fece in guerra l’aviatore ed è decorato di medaglia d’oro. 14 marzo - Fiume. Continuano a circolare le notizie piú strane. In una città come Fiume, già agitata da tremende preoccupazioni, incerta del suo avvenire e da lunghi anni sottoposta a eccezionali vicende, è un delitto aumentare artificialmente le ragioni di allarme. In gran parte quest’opera di sobillazione, che mira a togliere la pace ai poveri fiumani, dipingendo come gravissima la situazione, è frutto di emissari jugoslavi che saccheggiano la stampa d’oltre confine e ne spargono le falsità tra i pavidi e gli increduli. Il governo di Roma aiuta i nostri nemici con il suo atteggiamento incerto. Facta non vuole che Giuriati sia nominato Commissario di Fiume. I giornali ministeriali hanno piú volte annunciato che Giuriati stesso rifiuta l’incarico. Giuriati ha smentito. In queste condizioni la nomina di Giuriati è piú che mai indispensabile. Tutti hanno fiducia in lui, nella sua rettitudine di soldato ed esperienza di uomo politico. Decidiamo di convocare un plebiscito. Non la costituente, perché la maggioranza è zanelliana e ha seguíto il tristo padrone a Porto Re. Sono partiti De Stefani e Giunta. Nel Comitato, sostenuto da Bastianini e Lancellotti, ho fatto approvare un bando, col quale si annuncia la draconiana misura di espulsione dalla città per chiunque sparga notizie tendenziose e false. Il bando si applica anche ai cittadini fiumani. Mi dà preoccupazione l’atteggiamento di Castelli, il cosiddetto Ministro d’Italia, che adopera qui i sistemi di polizia cari al suo Governo. Mellifluo a parole, di fatto so che traffica contro di noi. Ha bisogno di strumenti piú docili per i fini che Roma si propone. E non mancano. Manovra sopra l’elemento umano degli eterni scontenti, sulle ambizioni e sulle necessità dei singoli. Specialità di Fiume, purtroppo. 15 marzo - Fiume. Oggi, colpo di stato! Il dramma è finito in operetta. Stamani quando l’ing. Prodam è giunto a Palazzo, gli arditi hanno sbarrato il passaggio: d’ordine del Comando Militare nessuno poteva mettervi piede. Dov’è questo Comando militare? Da chi rappresentato? Da quello stesso tenente Cabruna che, qualche giorno fa, fu messo dall’ing. Prodam alla testa delle truppe di Fiume, cento uomini in tutto, tra legionari, fascisti e nazionalisti. Un colpo di stato contro coloro che dieci giorni fa hanno salvato Fiume da Zanella, da parte di chi ha manifestato le stesse idee politiche e lo stesso programma di azione! Nulla di piú grottesco. Naturalmente, anche lo stesso... esercito fiumano è diviso. Gli squadristi fascisti non ne sapevano nulla. Il colpo è stato fatto da arditi, nazionalisti, ex-legionari e... repubblicani. Ai fascisti sono state rubate le armi. Povere le mie 12 mitragliatrici! È fuor di dubbio che il tenente Cabruna ha agito d’accordo col rappresentante diplomatico del governo italiano, il comm. Castelli. Proprio oggi il Comitato di difesa doveva stabilire la data del plebiscito per nominare Giuriati Commissario di Fiume. I cittadini dello Stato Libero, giuridicamente indipendenti per virtú del Trattato, erano autorizzati a scegliersi il governo che reputavano migliore. Giuriati veniva eletto dai fiumani: chi avrebbe potuto sostenere che era stato imposto da elementi stranieri? Ma proprio la legittimità di questa tesi ha dato fastidio ai governanti di Roma. Le istruzioni al Castelli debbono essere state categoriche. Sul primo momento l’avventura ci ha fatto ridere: se ci mettiamo a fare i colpi di stato contro noi stessi, i fiumani possono avere in questi tempi di malinconia un supplemento di carnevale. Ma non è lusinghiero per Fiume farsi trattare da Castelli come una provincia balcanica. Castelli mi ha detto che ci sono qui legionari che hanno riscosso l’indennità di congedo da Fiume due o tre volte. La riscuotono, passano il confine, e dopo una settimana ritornano. Sono i residuati del volontariato eroico dell’anno scorso. Giovani che hanno fegato e spregiudicatezza e amano Fiume inestinguibilmente. Per disgrazia sono disoccupati in Patria, non saprebbero che fare ai loro paesi e vivono qui allo sbaraglio... È difficile conciliare la passione con l’ozio. Il volontariato non è una professione. D’altra parte il tenente Cabruna è in buona fede: ne son certo. Ma non ha le qualità necessarie per governare una città, sia pure a titolo provvisorio. È un bel soldato, ma fino a qualche anno fa era brigadiere dei carabinieri. Qui vi sono problemi formidabili. La città ha bisogno di tutto. Non può essere Cabruna l’uomo della situazione. A buon conto ho immediatamente sospeso la mobilitazione di 2000 fascisti che dovevano radunarsi a Ravenna e imbarcarsi a Porto Garibaldi. Qui la benevola neutralità delle guardie di finanza della mia provincia avrebbe permesso ai fascisti di salire sui piroscafi già predisposti e di concentrarsi a Fiume, per proteggerla dalla minacciata incursione jugoslava. Noi possiamo ormai andarcene da Fiume. Non abbiamo nulla di comune con questa gente. Soltanto i fascisti sono al loro posto e dànno come sempre prova di serietà. Credo che i nazionalisti fossero d’accordo con Castelli per ordire l’operetta. Tanto è vero che la Vedetta d’Italia di oggi, diretta da Odenigo, approva in pieno il ridicolo colpo di stato di Cabruna. Gelosie di mestiere? Insofferenza di disciplina? Velleità di fiumanesimo autonomo? Umore variabile? Peggio? Tutto può essere. Non m’interessa. Del resto ci sono autorevoli nazionalisti, che con lodevole sincerità dicono che i nazionalisti non possono fondersi con i fascisti. Giustissimo. Ma non per le ragioni che portano. Essi trattano i nazionalisti da sapientoni e noi da ignoranti. Di là un cervello senza braccia, di qua braccia senza cervello. Grazie tante! È vero invece che i fascisti sanno agire con cieca abnegazione personale e con una disciplina assoluta; il che non si può dire per i nazionalisti, ognun dei quali si crede invasato dallo Spirito Santo. Per ora, impossibile intendersi. Ho trovato però tra i nazionalisti fiumani un buon ragazzo, il tenente Viola. 15 marzo, notte - Fiume. Stasera mi son divertito a prendere in giro i neo-governanti. Cade una lieve pioggerella. Abbiamo lanciato per telefono la notizia che la squadra inglese stava per entrare in porto. Sono piombati giú i giornalisti con la lingua fuori. Ultimo arrivato in carrozzella il corrispondente del Carlino che abita piú lontano, alla periferia, il prof. Enrico Burich con le chiome bionde al vento e gli occhi che schizzano sotto le grosse lenti. È giunto a Fiume anche l’on. Eugenio Chiesa, in vestitino grigio e la inseparabile cravatta bianca. Forse anche lui ha un qualche colpo di stato in tasca. Gli abbiamo chiesto se, visto l’insuccesso degli ideali repubblicani in Italia, veniva a farne l’esperimento a Fiume. «Qui il terreno è propizio, — gli ho detto: — basta mettersi d’accordo col comm. Castelli.» 16 marzo - Trieste. L’avventura di Fiume è finita. Al confine, dietro un ordine telefonico spiccato contro di me dall’addetto militare presso la Legazione d’Italia, un ignoto maggiore di fanteria, mi volevano arrestare. Naturalmente ho saputo disimpegnarmi a dovere. Ho trovato qui al «Savoia» De Stefani e Giuriati, ai quali ho raccontato le ultime vicende fiumane. C’è del comico e del melanconico. Cabruna ha stabilito che il Comitato di difesa ceda i poteri alla minoranza della Costituente il giorno 21. È l’ultima sciocchezza. La Costituente fu eletta insieme con Zanella, e con Zanella ha perduto ogni mandato. Riconoscerne una parte equivale riconoscere anche la maggioranza, che è rifugiata a Porto Re, traffica con gli jugoslavi, e ne invoca l’aiuto per ritornare. Povera Fiume! Le sue disgrazie non sono finite. Questa ultima esperienza dimostra come non possa risolvere da sola il proprio problema, sia politico, sia finanziario, sia morale. Uno staterello senza mezzi che i governanti d’Italia aiutano solo a prezzo di piccoli ricatti e la Jugoslavia insidia in permanenza, non può vivere. Il destino di Fiume è uno solo: uno sbocco: l’annessione. Torniamo dunque al compito maggiore, anche noi, che stiamo per lasciarla con un fondo di amarezza in cuore: andiamo a combattere per la conquista dell’Italia. Fiume si redime redimendo Roma. 2 aprile - Milano. Sono giunto a Milano questa sera per la riunione del Consiglio Nazionale. Sono stato al Popolo da Mussolini. Abbiamo parlato a lungo di Fiume. Nell’atrio dell’Hôtel Corso trovo Bastianini, Teruzzi, Bolzon e il buon Villelli siciliano, che per giungere da Messina ha impiegato quasi tre giorni. Deve essersi fermato per la strada ad attaccare qualche bottone sulla questione meridionale. Anche stasera non ha perso tempo e ci ha abbordati immediatamente con la sua idea fissa. È un ottimo amico, pieno di buona volontà. Ci occuperemo della questione meridionale... quando il Fascismo sarà al Governo. Il Consiglio Nazionale di domattina ha ben altre questioni sul tappeto. Ricapitoleremo le vicende di Fiume e sarà messa in discussione la questione Marsich che ha creato una specie di secessionismo morale, non in noi che siamo tutti della stessa idea, ma nelle polemiche... dei giornali avversari! 3 aprile - Milano. Giornata di grande soddisfazione per me. Il Consiglio si è riunito nel foyer del Teatro Lirico. Siamo cresciuti d’importanza. L’organizzazione è stata fatta dal Fascio di Milano. Alle porte montano la guardia i fascisti ambrosiani, inappuntabili. I servizi interni procedono speditamente con un senso di organizzazione veramente straordinario. La signorina bionda che sta alla segreteria amministrativa, è il centro di questa piccola macchina improvvisata. E ha predisposto le cose in modo che nulla ci manca. Un partito vecchio di decenni non potrebbe fare di meglio. Le dico scherzando che potrebbe fungere da segretaria generale in qualche grande convegno di partiti inglesi. Quando entra Mussolini, scattiamo tutti in piedi in una dimostrazione di affetto nella quale già è la certezza dei grandi eventi che stanno maturando. Egli è l’unico centro della vita politica italiana del dopoguerra e il destino ci ha trattati benignamente mettendoci vicino a lui nel piccolo stato maggiore da cui usciranno i quadri della Nazione di domani. Osservo come egli abbordi subito le grandi questioni: entra nel cuore stesso dei problemi massimi: le piccole miserie di provincia non trovano qui, vicino a lui, aria opportuna. Ci siamo subito occupati della questione di Fiume. Io rappresento anche la Federazione provinciale fascista di quella città. L’atteggiamento del Fascio fiumano è stato sottoposto a un esame minuzioso. Le vicende fra la conquista fascista del 3 aprile e il cosiddetto colpo di stato di Cabruna del giorno 15, sono vagliate imparzialmente, senza nulla trascurare dei riferimenti delicati verso il Governo di Roma e verso i partiti affini. Il Consiglio ha finito per approvare all’unanimità con un voto di plauso, nel quale la mia opera ha avuto la sua parte, l’atteggiamento del Fascio fiumano. Le amarezze dei giorni susseguenti all’epilogo inaspettato del 15 marzo, sono largamente compensate dalla calda dimostrazione di solidarietà e dalla piena approvazione di Mussolini e dei camerati del Partito. Sono stato invitato dal Consiglio a preparare insieme con Giunta, De Stefani, Giuriati e Bastianini un libro nel quale sia chiaramente esposta la nostra linea d’azione a Fiume e i criteri a cui abbiamo ubbidito nei dodici giorni del nostro governo. Un libro che dovrebbe essere non soltanto politico e in certo senso diplomatico per sgombrare il terreno da ogni equivoco, ma anche uno strumento di propaganda per mantenere viva la memoria e acceso il problema della città martire davanti agli italiani. Non so se il libro potrà mai essere fatto. Dubito che uomini di cosí fervida attività, impegnati in parti tanto lontane d’Italia, possano trovare il tempo per eseguire l’ordine del Consiglio Nazionale. Forse, piú che un libro, bisognerà fare qualche cosa di piú solido per Fiume. In ogni modo, per conto mio, la giornata di oggi si è chiusa con la piú grande soddisfazione. È seguita una discussione sopra la posizione di Marsich, dopo le sue dichiarazioni nettamente dissenzienti dalle direttive del Partito. Marsich è un poeta e un idealista. Ma la politica non si fa sulle nuvole. L’antiparlamentarismo di Marsich è in netto contrasto con la costituzione del Fascismo in Partito. C’è molta posa estetica nell’atteggiamento di mistica rivoluzionaria di Marsich. Forse anche molto decadentismo che gli deriva da una indigestione di motivi dannunziani. Il segreto sta nel conservare il dinamismo rivoluzionario, questo fuoco interno che anima i fascisti, e nello stesso tempo nel tener d’occhio e nel dominare la realtà. Il nostro movimento ha la fortuna di essere idealistico e realistico insieme. Se vagassimo nell’astratto, passeremmo per utopisti. L’Italia non ha bisogno di utopie. Se ne è cibata fin troppo. Il paese è assillato da problemi urgenti d’ogni genere. La vastità del nostro movimento ci impone il dovere morale di tenere i piedi ben fermi sulla terra, di stare al concreto, di sfruttare tutte le possibilità positive. La piattaforma parlamentare non ci serve che di strumento per andare piú avanti. Noi disprezziamo il Parlamento, ma dobbiamo servircene. Cosí per conto mio approvo pienamente l’atteggiamento stabilito dal Consiglio Nazionale circa il fiancheggiamento dei gruppi affini. Servirsene e non restarne asserviti. Il torto di Marsich è stato di pubblicare precipitosamente le sue opinioni di dissidente. In un Partito come il nostro, ancora giovane e composto di giovani, sono facili gli smarrimenti e perniciose le confusioni. La necessità dell’azione ci obbliga a una severa disciplina. Marsich è già stato deplorato dalla Direzione del Partito. Io gli inviai da Fiume un telegramma piuttosto duro invitandolo a non creare noie e ad aderire alla realtà. Oggi la discussione sul suo caso è stata piuttosto bollente. Ma in sostanza nessuno ha difeso Marsich. Tutti hanno compreso che il momento è troppo grave per dividerci su questioni di tendenza. Pisenti di Udine ha dato una definizione di Marsich che mi è sembrata incisiva: ha detto che Marsich ha della politica una visione lagunare. È un tocco da artista che dipinge lo stato d’animo del nostro camerata veneziano. La deplorazione di Marsich è stata approvata alla unanimità. 4 aprile - Milano. Delle giornate milanesi questa è stata certamente la piú importante e anche la piú emozionante. Si è fatta la discussione sull’indirizzo politico del Partito. Mussolini ha tenuto uno splendido discorso chiarendo e illustrando lo spirito manovriero col quale dobbiamo affrontare i problemi del momento, che sono la preparazione al piú vasto programma del domani. Con le formule rigide non si fa politica, non si tengono aderenti le masse, non si conquista il potere. Il fallimento dei vecchi partiti e soprattutto di quelli d’avanguardia, è dovuto al fatto che si sono volontariamente resi prigionieri della ideologia. Ma la vita, di cui la politica è lo specchio, è novità, creazione, imprevisto. Bisogna avere la prontezza di fronteggiare rapidamente qualsiasi evenienza spostando il fronte della battaglia là dove piú urgente è il bisogno e piú grave è il pericolo. Il Duce ci ha dato un panorama della vita pubblica italiana cosí sintetico e preciso che può servirci di viatico per i mesi che verranno. Ho sentito nelle sue parole che il possibilismo tattico di cui ha fatto l’elogio è la premessa per la mèta che ci attende, nella quale si compendia l’ideale piú vasto, assoluto, definitivo: Roma. Cosí non rischieremo mai di restare presi nelle insidie e nelle lusinghe dei problemi particolari. Ci atterremo al presente ma con lo sguardo al futuro. Alla fine io stesso ho formulato e presentato l’ordine del giorno che approva in pieno l’indirizzo politico del Partito quale è stato presentato nell’indimenticabile discorso del Capo. 5 aprile - Milano. Questi socialisti milanesi fanno un gran baccano perché il Fascismo ha permesso che il funerale del ferroviere Corazza si svolgesse senza incidenti. Leggendo l’ Avanti! con enormi titoli a sei colonne e articoli ditirambici in ogni pagina sembra che abbiano ottenuto chissà quale enorme vittoria politica. Ma non si tratta che di un funerale. A che cosa sono ridotti gli ex-padroni d’Italia! Capolavoro di ingenuità o di ipocrisia: prima hanno messo in moto tutte le autorità locali affinché impegnassero i loro buoni uffici per lo svolgimento tranquillo del corteo. Dopo il funerale, visto che i fascisti avevano deciso di non disturbare la pace dei cimiteri (sarebbe stato facilissimo ma tutt’altro che eroico), vantano l’assenza delle Camicie nere come un loro trionfo. Ognuno si consola come può. I socialisti si consolano coi funerali. Ho trovato nell’ Avanti! una fiera lettera degli arditi del popolo, che annunciano propositi di lotta armata contro di noi. Per incominciare, questa dichiarazione di guerra è anonima. I generali tengono in dignitoso riserbo i loro nomi. Ma dove sono poi questi generali? Sono della tempra di quel mascalzone di Gatto-Roissard, collaboratore anonimo dell’ Avanti! e maggiore degli Alpini in posizione ausiliaria? Non credo che Anando abbia colleghi in fellonia! E se non sono ufficiali, i vecchi capi rossi sono tutti fuggiti dalle provincie e non ci ritornerebbero neppure se il Fascio desse loro il piú autorevole salvacondotto. Forse nel ’21 avrebbero potuto tentare qualche movimento. Ma oggi le masse sono con noi al cento per cento. È dubbio quindi se vi sono generali, ma è certo che non vi sono soldati. La posizione degli arditi del popolo non potrebbe essere piú grottesca. Probabilmente tutta la loro strategia si esaurisce in qualche tavolo di caffè. Sospirano e vorrebbero ingaggiare qualche difensore, ma, cerca cerca, non trovano altri che le guardie regie. Siamo alle solite. 6 aprile - Ferrara. Hanno arrestato a Bologna Gino Baroncini. Dopo un comizio a Porretta, pare che Baroncini abbia ingiuriato un brigadiere dei carabinieri troppo zelante. L’autorità lo arresta sul posto, ma poi teme le rappresaglie degli squadristi e lo rilascia per metterlo definitivamente in galera al suo ritorno a Bologna. Bell’esempio di coraggio e di fermezza! I poliziotti di Mori hanno mano libera soltanto in città e allorché agiscono di sorpresa. Che cosa vale e che cos’è allora l’autorità dello Stato? Ma il prefetto Mori non cessa per questo dal trattarci come teppisti comuni. Lo chiamano vicerè. Il nome ricorda i metodi borbonici di Franceschiello. È un errore madornale trattare il Fascismo con sistemi di polizia. Ci vuole altro che un manipolo di questurini per distruggere il Fascismo. Il Fascismo è l’Italia. Se il Governo vuole arrestarci in massa non ha che a dichiarare tutta l’Italia una prigione. Ma le mura non tarderanno a saltare sulla testa dei carcerieri. 9 aprile. Domenica scorsa fu a Ferrara l’on. Rossini, Ministro delle Pensioni di Guerra. Ha convocato i presidenti delle Sezioni Combattenti e ha tenuto un discorso infiammato ispirandosi alla battaglia fascista. A Ferrara era difficile parlare altrimenti. Del resto nel Ministero Facta il Ministro Rossini dovrebbe rappresentare l’ala estrema del filofascismo. Ma ecco che martedí 4, l’ Avanti! lo attacca per le sue frasi imprudenti raccolte dal corrispondente del Carlino, e Rossini quest’oggi smentisce sull’ Avanti! tutto il suo discorso. Tanto per non dimenticare, perché l’avvenire è sulle ginocchia di Giove, trascrivo qui qualche periodo dell’ Avanti!: «Egli [Rossini] non solo autorizza, ma prega di rendere noto che non si è neppure lontanamente sognato di esprimere i pensieri che il Carlino gli attribuisce. Anche a Ferrara, nell’adunanza dei presidenti delle Sezioni Combattenti, egli invitò i combattenti a insegnare a tutti il civile rispetto per ogni idea. Nelle manifestazioni pomeridiane provvide a escludere ogni accenno politico e nel suo discorso proclamò finito il tempo della violenza». Bravo Rossini! Chi sa quale lavata di testa gli avranno fatto Amendola o Taddei al suo ritorno da Ferrara a Roma. Gli si devono essere rizzati in testa tutti i capelli della sua ricca chioma. Oggi battono le mani i socialisti. Speriamo che egli non pretenda domani gli applausi dei fascisti. 11 aprile. È venuto nella nostra provincia il Ministro dell’Agricoltura on. Bertini, popolare, per visitare le tenute della Grande Bonificazione ferrarese. È un’impresa del Banco di Roma: e Bertini è Ministro del Regno. Ma in questo regime non si guarda tanto pel sottile. Banca e politica sono parenti stretti. I catoni popolari che ci fanno la morale ogni giorno e ostentano pose da bolscevichi, sono alla mercé degli avventurieri della finanza. Il palazzo della Borsa non è che l’anticamera della sagrestia e viceversa. Ho incontrato il Ministro popolare, che per giunta è un toscano di Prato, cioè la quintessenza dell’uomo furbo, dal viso volpino, occhi equivoci sfuggenti e un misticismo avvocatesco e linguaiolo. I fascisti di Ferrara dovevano presentargli un promemoria sui problemi urgenti della provincia. Ho trovato il Ministro a Mirabello, ospite del comm. Lisi. Era circondato da personaggi molto interessanti e significativi: il grande ufficiale Vicentini da una parte, che rappresentava il Banco di Roma, a cui fa capo la Società delle Bonifiche, e il prefetto Mori dall’altra, simbolo e incarnazione della regia Questura. Bertini non poteva scegliersi migliori angeli custodi. Tra gli altri, nella massa, l’on. Milani, il senatore Pini e svariate comparse. Abbiamo consegnato al Ministro, Rossoni e io, il memoriale della provincia. Francamente, avevamo l’impressione di impostare una lettera in una buca smessa, ove la posta non è piú ritirata. Ma era il nostro dovere. In compenso mi sono divertito a spaventare il prefetto vicerè di Bologna. Gli ho detto che a un mio fischio migliaia di fascisti potevano circondarci e far prigioniero il Ministro popolare. Bastava un mio ordine. Ero incerto se darlo o no. Che chiasso domani per la Penisola! Un Ministro sequestrato dai fascisti! Lo scandalo avrebbe sepolto per sempre il signor prefetto sotto una ondata di ridicolo e di sdegno. Addio carriera! Ho detto al prefetto, tra il serio e il faceto, che la tentazione era forte. Noi potevamo tenere in ostaggio Sua Eccellenza Bertini sino al momento in cui il prefetto Mori non avesse liberato Gino Baroncini e i fascisti bolognesi che egli tiene abusivamente in carcere. Mori sa che mettiamo poco tempo fra il dire e il fare e che siamo degli spericolati. Del resto quel gruppetto di personaggi ufficiali — Ministro, prefetto, autorità in redingote e cilindro — cominciavano ad essere letteralmente annegati in un mare di Camicie nere che giungevano da ogni parte attratti dalla presenza mia e di Rossoni. I carabinieri erano otto o dieci in tutto. La preoccupazione del prefetto è diventata incontenibile. I suoi occhi tondi avevano una espressione vaga. Io scherzavo come il gatto col topo. Balbo scherza sempre... Il prefetto si è affrettato ad assicurarmi che le misure contro Baroncini e i suoi camerati erano puramente precauzionali. Domani o posdomani li rilascerà: cosí ha promesso e cosí va bene. Una barzelletta può alle volte risolvere una intricata situazione politica. 25 aprile. Il prefetto Mori ha mantenuto la promessa. Gino Baroncini è stato scarcerato. Tutto si è risolto con 500 lire di multa. 25 aprile. Sono stato a Milano da Mussolini per esporgli la situazione difficile delle campagne ferraresi e le linee generali di un mio progetto per costringere il Governo a intervenire. Questa è la stagione piú difficile per noi. Nell’inverno la popolazione esuberante delle campagne trova lavoro nella applicazione dei patti di imponibilità che costringono il proprietario ad assumere una certa proporzionalità di mano d’opera disoccupata: circa 6 persone ogni trenta ettari. Ma finiti i lavori agricoli, tra la fine dell’inverno e il principio dell’estate, nei mesi di aprile e maggio la grande massa degli operai della provincia non sa dove impiegarsi. I disoccupati arrivano a cifre astronomiche: cinquanta, sessanta e anche settantamila. Negli anni precedenti il Governo non mancava di provvedere destinando alla provincia di Ferrara 10-15 milioni di lavori pubblici. Quest’anno, quantunque la stagione sia molto inoltrata e il numero dei disoccupati non sia minore, nonostante le premure che sono state fatte dai nostri deputati e dalle autorità prefettizie, e benché tutti i progetti di lavori pubblici siano stati studiati perfettamente e alcuni di essi siano urgentissimi, il Governo non si fa vivo. Mia supposizione esposta a Mussolini: quasi certamente si tratta di pressioni esercitate dai deputati socialisti concentrati a Roma. Essi mirano a far comprendere alle masse, ormai passate tutte al Fascismo, che noi non siamo capaci di ottenere dal Governo quello che era normale sotto il loro dominio. Gli operai della provincia di Ferrara dovrebbero scontare con la fame il loro presunto tradimento. Il Governo è sempre sensibile alle lusinghe della opposizione socialista e fa sistematicamente il sabotaggio delle proposte fasciste. Mussolini conviene con me e aggiunge che all’ostruzionismo del Governo si deve certamente aggiungere anche quello della burocrazia la quale è tutta legata a filo doppio con i deputati socialisti. Mi assicura che egli stesso ha scritto, dopo i miei allarmi epistolari, a Roma, reclamando in tono sempre piú urgente i lavori pubblici per il Ferrarese. Ma anche la sua lettera è rimasta senza risultati positivi. Gli espongo allora il mio piano: concentrare a Ferrara all’improvviso tutti i lavoratori disoccupati della provincia, cioè circa 60 mila persone, mobilitandoli fulmineamente, prima che l’autorità ne venga a conoscenza. Occupare la città e non togliere l’assedio alla Prefettura finché Roma non dia garanzie di immediato intervento. Difficoltà varie: di trasporto, di vettovagliamento, di disciplina. Incertezze sopra la segretezza degli ordini di mobilitazione. Ogni lato della questione è sottoposto a un rapido esame. Conosco a perfezione il Ferrarese, le sue strade, i suoi accessi, la sua psicologia. Assicuro Mussolini dell’esito perfetto di questa grande manovra che è la prima del genere che si tenti in Italia. Me ne assumo in pieno la responsabilità. Aggiungo che essa servirà a darci l’esatta sensazione dello stato d’animo delle nostre masse, la misura della loro disciplina. Forse l’esperimento che stiamo per tentare sarà prezioso ai fini futuri della rivoluzione. Mussolini non ne dubita e mi dà il suo pieno consenso. 26 aprile. Ferve il lavoro di organizzazione segreta per la grande mobilitazione dell’esercito dei disoccupati. Dai calcoli fatti, posso portare a Ferrara circa 60 mila persone. In ogni paese il fulcro della organizzazione di questa leva in massa è il Fascio locale. Il segretario politico, fiancheggiato dal segretario dei sindacati, inquadrerà i lavoratori della sua zona. Gli orari di mobilitazione e di partenza sono stabiliti in modo che l’arrivo alle porte della città sia contemporaneo. Ma gli ordini di tutto il movimento debbono restare segreti fino all’ultimo momento. Se qualche indiscrezione trapela, la macchina poliziesca può mettersi in moto a sua volta coi carabinieri e le guardie regie e paralizzarci sin dal principio. Oltre al Direttorio, Felici, Albini e qualche altro capo, nessuno è al corrente del piano stabilito, eccezione fatta per il mio fedele Feliciano Bignozzi e per il corrispondente del Resto del Carlino, Remo Magri, nel cui riserbo ho piena fiducia. Questi due amici mi accompagnano di paese in paese nel lavoro di preparazione. Anche oggi ho percorso metà provincia. Facciamo piccole riunioni parziali di fascisti e sindacati, per vedere da vicino quale sia il loro affiatamento e prendere contatto diretto con i capi ai quali non possiamo però ancora svelare il nostro intero programma. Mi convinco che i singoli Fasci sono pienamente all’altezza della situazione. I segretari conoscono a perfezione la loro gente e mi rassicurano sulla fedeltà assoluta degli operai sindacati. Mi dànno preziosi particolari sul grado acuto della disoccupazione e della fame. Domani partirà da Ferrara una circolare personalmente portata ad ogni segretario del Fascio da corrieri di fiducia con l’ordine che la busta sia aperta soltanto nel giorno e nell’ora convenuta. Lavoriamo anche la notte. Ormai non possiamo piú calcolare sulle ore del sonno e della veglia. 27 aprile. Circolare spedita a mia firma ai Fasci della provincia: PARTITO NAZIONALE FASCISTA FEDERAZIONE PROVINCIALE FERRARESE CIRCOLARE RISERVATISSIMA N. 801 DI PROT. Al Sig..... Segretario del Fascio di..... e per conoscenza a tutti i Consiglieri Federali OGGETTO : Movimento contro la disoccupazione . Ferrara, 27 aprile 1922. «Caro amico, avrai compreso dal manifesto Federale in data odierna come si renda indispensabile una nostra dimostrazione in forza contro il Governo, per ottenere quegli indispensabili lavori pubblici che possono alleviare la disoccupazione nella Provincia.. Abbiamo lanciato un ultimatum con il manifesto, ma se in brevissimo tempo i lavori non saranno concessi, manterremo la parola ed agiremo in conseguenza. «Devi perciò preparare tutto, per non essere colto alla sprovvista dall’eventuale ordine di movimento che ti posso inviare da un momento all’altro. «Avrà luogo a Ferrara una manifestazione che deve essere la piú formidabile del Fascismo Ferrarese e che segnerà il termometro della nostra potenza. Ad essa parteciperanno gli operai dei nostri Sindacati, e quelli del tuo paese si dovranno mettere ai tuoi ordini, come risulta dall’acclusa lettera che recapiterai immediatamente al Segretario del tuo Sindacato, prendendo con lui gli opportuni accordi. «Ad ordine ricevuto, all’ora che sarà indicata, ti dovrai trovare a Ferrara con tutti i tuoi fascisti e con quanti operai dei Sindacati puoi mettere assieme. A proposito di operai, sappi che non solo i disoccupati, ma anche gli occupati dovranno intervenire alla manifestazione, per dare ai compagni senza lavoro prova della loro solidarietà. Per i fascisti, sappi fin d’ora che sono disposto ad accettare giustificazione d’assenza solo per gravissimi motivi: troppi fascisti fanno i loro comodi e se ne infischiano dei frequenti appelli. Da questa manifestazione doverosa ed umanitaria, trarremo motivo per molte necessarie espulsioni. «Tutto il nostro esercito giovanile, che inquadrerà l’esercito dei lavoratori, deve essere presente nel giorno fissato. «S’intende che il tuo Fascio partirà assieme agli uomini del tuo Sindacato, formando un unico reparto. Debbono essere portate le bandiere dei Sindacati ed i gagliardetti dei Fasci. «Il mezzo di trasporto preferito sia la bicicletta, e per le zone di Codigoro, Massafiscaglia e Migliarino le barche, che dovranno essere messe gratuitamente a disposizione dai barcai, perché combattiamo anche la loro battaglia. Nell’ordine di movimento, verrà fissato il luogo preciso degli ammassamenti per le singole zone. «Poiché può darsi che la dimostrazione si protragga per 48 ore e forse per 72, cosí ogni Fascista o operaio del Sindacato porterà con sé un involto con pane e viveri a secco. «Raccomando ai Fascisti di compiere opera di assistenza verso gli operai piú indigenti, perché possano provvedersi del vitto necessario per la permanenza a Ferrara essendo i nostri organi impossibilitati a provvedere anche solo per pochissimi. «E poiché nella notte si dovrà dormire in accantonamenti, tutti si forniscano del mantello o di una coperta. «Avverto fin d’ora che non tollererò la minima infrazione alla disciplina. Durante questa nostra battaglia è assolutamente proibito l’uso anche limitato degli alcools e la visita alle case di tolleranza. «Ti raccomando di preparare tutto sin d’ora, d’accordarti con il Sindacato che deve essere con noi. «Leggi la presente al tuo direttorio ed inviami un cenno di ricevuta per telegramma, citando il numero di protocollo. «Fidando nel tuo spirito di disciplina, nella tua fede, ti comunico ancora che non ho mai inteso d’inviare ordine piú perentorio di questo. «Fraterni saluti. Il Segretario Politico Federale Italo Balbo « N. B. - Aggiunta alla circolare n. 801 . « In occas ione del primo maggio non si deve ammettere che si tragga motivo dalla disoccupazione, per inscenare dimostrazioni di sorta. «L’ordine, in ogni paese, è affidato alle squadre d’azione del Fascio. Balbo .» Edmondo Rossoni ha spedito ai Sindacati quest’ordine: CAMERA SINDACALE DEL LAVORO DI FERRARA E PROVINCIA N. 1284 DI PROT. Al Segretario del Sindacato di..... Ferrara, 27 aprile 1922. «Se in breve tempo il Governo non concederà al Ferrarese i lavori pubblici che dovranno alleviare la disoccupazione, i Sindacati ed i Fasci scenderanno a Ferrara per una dimostrazione di forza, e non si muoveranno da Ferrara se non a lavori concessi. «A questo scopo ti abboccherai con il segretario del Fascio locale, che ti consegnerà la presente, prendendo con lui i necessari accordi, perché il tuo sindacato partecipi numeroso a questa manifestazione di solidarietà verso i disoccupati. «La compattezza ci darà la vittoria. Il Segretario Generale Edmondo Rossoni ». La circolare è stata diramata ieri notte con sei automobili che hanno percorso le sei principali strade della provincia. È giunta a tutte le destinazioni. Sono sotto pressione, ma tranquillo. Ho la certezza di preparare una manifestazione che farà epoca nella storia del Fascismo italiano. Tra i capi fascisti vi è l’aspettazione di qualche evento grandioso. Sembra di essere alla vigilia di una rivoluzione. 29 aprile - Pesaro. Il Partito mi ha invitato a recarmi nelle Marche dove vi è necessità di intensificare la propaganda. Ho parlato oggi a Pesaro. I fascisti sono pieni di slancio. Ma la situazione politica di questa regione li tiene ancora in una specie di isolamento. Qui hanno lavorato in profondità socialisti e popolari. La città è piuttosto apatica. Tuttavia si è prodotto, per il mio discorso, un certo movimento. 30 aprile - Ancona. Ottima soddisfazione, oggi, ad Ancona. Queste acque morte delle Marche, dove il Fascismo procede con difficoltà, perché gli avversari gli fanno il vuoto intorno, sono state oggi scosse da una piccola tempesta. I fascisti mi hanno fatto grandi dimostrazioni. Nel pomeriggio ho inseguito il socialista on. Bocconi che sapevamo doveva inaugurare il monumento ai caduti a Castelleone di Suasa, piccolo paesello della provincia. Il figlio di Bocconi, interventista del ’15, è morto in guerra. Non so come il deputato socialista marchigiano concilii il suo socialismo con la memoria del figlio suo, che si è offerto in olocausto alla Patria. Prendo con me tre fascisti anconetani. Paesello pittoresco, retto da un municipio comunista. Decine di bandiere rosse al vento. Grande impressione al mio arrivo. In municipio il sindaco se la cava offrendo da bere a me, insieme ai rappresentanti del partito socialista. Dichiara che per lui sono ospiti gli uni e gli altri. La cosa non manca di comicità. Accetto il bicchiere del sindaco e dichiaro che lascerò parlare tranquillo Bocconi a condizione che non dica male della guerra. Bocconi preoccupatissimo. Durante il discorso non fa che inneggiare ai grandi morti caduti per un ideale di giustizia, davanti al quale gli uomini di tutti i partiti debbono inchinarsi. Accenti patriottici. Nessuna ingiuria, anche indiretta, a chi ha voluto e fatto la guerra. Il deputato socialista e i buoni sovversivi radunati a Castelleone di Suasa credevano che nelle vicinanze fossero nascoste chissà quante squadre di Camicie nere ferraresi. Alla fine di ogni periodo l’oratore lanciava sguardi indagatori intorno a sé. Io e i miei tre amici ascoltavamo in silenzio dandoci un contegno. Finito il discorso, il sindaco ha domandato se desideravo parlare. Impossibile essere piú cortesi. Ho risposto che sottoscrivevo a due mani il discorso dell’on. Bocconi, i cui alti sentimenti patriottici mi hanno profondamente commosso... Imbarazzo di Bocconi. Potevo aggiungere che la paura fa novanta. Un bel caso però. Eravamo in quattro contro mille e ci siamo fatti rispettare! Sono ritornato da Castelleone ad Ancona. Per la prima volta, in una sala aperta a tutti, senza biglietto d’ingresso, è stato tenuto, in questa città, un comizio pubblico fascista. Il fatto mi ha stupito, perché la città possiede, tra l’altro, un deputato fascista, l’on. Gay. Ma occorre riferirsi alla situazione delle Marche. Grande entusiasmo e nessun incidente. Ho invitato io stesso gli avversari del Fascismo a prendere la parola. Per fortuna il mio contraddittore era un avvocato repubblicano, brava persona ma non troppo convinto: tra l’altro, volontario di guerra e garibaldino. Dopo un’ora e mezza di schermaglia verbale, ha finito per dichiararsi d’accordo con me. Grande iniezione di coraggio e di decisione negli amici delle Marche. 1° maggio. Quest’anno, per la prima volta, il consueto sciopero socialista del primo maggio è fallito completamente. Ovunque la giornata rossa si è trasformata in una manifestazione grandiosa di fede fascista. A Bologna, adunata di 25.000 fascisti in piazza. Mentre mi recavo a prendervi parte insieme con Feliciano Bignozzi, col dott. Caretti e Albini, ci siamo imbattuti a pochi chilometri da Molinella con un gruppo di 30-40 socialisti tutti in bicicletta che cantavano «bandiera rossa». Ne è seguita una zuffa furibonda. Caretti, irruento come sempre, si è messo di fianco alla strada. Spingendo con un urtone il primo ciclista che gli si parava davanti ne faceva ruzzolare nel fosso tre o quattro. Noi ci disimpegnavamo nel modo migliore con gli altri. Per fortuna nel fosso vi era poca acqua perché quasi tutti gli esaltatori della «bandiera rossa» hanno finito per andarci dentro. Sembrava un gioco di soldatini di piombo. Due feriti leggeri. Nel tafferuglio ebbero la peggio le biciclette. Dopo un poco tutti i socialisti avevano tagliato la corda, parte infilandosi nei campi vicini, parte facendo un rapido dietro-front. Sul campo sono rimaste sette od otto biciclette. Sono giunto a Bologna in tempo per assistere alla grandiosa manifestazione che si è svolta fra una popolazione festante. 10 maggio. Seconda circolare esecutiva spedita nella stessa maniera della prima ai Fasci della provincia: PARTITO NAZIONALE FASCISTA FEDERAZIONE PROVINCIALE FERRARESE RISERVATISSIMA PERSONALE - N. 838 DI PROT. A tutti i Segretari dei Fasci ed ai Consiglieri federali Al Sig..... «Il tuo Fascio e il tuo Sindacato (giusto il preavviso della circolare n. 801 in data 27 aprile 1922) si devono trovare a Ferrara venerdí 12 corrente, alle ore 9 precise. «Un apposito servizio d’avanguardisti alle barriere indicherà i luoghi prestabiliti pel deposito delle biciclette e per il concentramento dei gruppi. «Fasci e Sindacati dovranno essere inquadrati perfettamente. Appena arrivato a Ferrara, invierai subito alla Federazione un uomo il quale dovrà consegnare all’apposito incaricato un tuo biglietto nel quale notificherai il numero preciso dei fascisti e degli operai che sono intervenuti alla manifestazione. «I fascisti ed operai dei singoli Comuni e delle singole zone del Comune di Ferrara, rimarranno agli ordini dei rispettivi Consiglieri Federali, che dovranno trovarsi costantemente tra i loro uomini, allo scopo di sorvegliarli e dirigerli. «Raccomando che ognuno rechi con sé pane e viveri a secco, perché nei giorni delle dimostrazioni alberghi e trattorie rimarranno chiusi. «Rammento pure la necessità che ogni uomo si provveda d’un pastrano o mantello o coperta per la notte. «Se la dimostrazione sarà protratta, a cura del Comitato verrà distribuito un rancio caldo di caffè, il secondo giorno ed il terzo. A questo scopo sarà bene che gli uomini si provvedano di una tazza ogni tre o quattro persone. «Dovrà essere mantenuta la disciplina piú rigida: sono proibitissime le bastonature, anche se fossero rivolte contro il peggiore nemico. «Ogni atto inconsulto e non ordinato sarà severamente punito. «I capisquadra saranno ritenuti direttamente responsabili dei reparti dipendenti. «I membri del Comando porteranno una coccarda tricolore sul panciotto all’altezza del cuore, e saranno muniti di tessera speciale da me firmata. «Ed ora ancora una volta comunico che tutti i fascisti dovranno intervenire alla dimostrazione. I Direttori potranno esentare solo qualcuno per motivi eccezionalissimi. Per gli altri assenti, espulsione irrevocabile. E gli operai dei Sindacati partecipino compatti a questa battaglia che combattiamo per i loro diritti. «Dal 12 maggio in poi i Fasci si disinteresseranno completamente di quei Sindacati che non compissero il loro dovere in questa occasione. «Questo ordine sia mantenuto segretissimo perché le Autorità non debbono avere sentore del movimento. «Arrivederci venerdí a Ferrara! «Compattezza e disciplina sia la vostra divisa! «Saluti fraterni. Il Segretario Politico Federale Italo Balbo». 11 maggio. Alle ore 16 di oggi gli ordini di movimento erano giunti a tutti i paesi e le grande mobilitazione poteva dirsi iniziata. Ho sciolto ufficialmente i Direttori del Fascio di città e della Federazione Provinciale Fascista. Tutti i poteri sono passati al Comando delle squadre di combattimento, cioè nelle mie mani. Provvedimento indispensabile per togliere di mezzo qualsiasi appiglio alla ricerca delle responsabilità che potrebbe essere domani tentata dalla autorità prefettizia. Fino a questo momento il segreto sulla portata generale del movimento e sui suoi fini è perfetto. La genesi di esso è sconosciuta perfino ai camerati del Direttorio Federale. Non potevo restare del tutto tranquillo di fronte ai pericoli della loquacità e della inesperienza di qualcuno. La mobilitazione generale incomincia questa notte alle 24. Ma già dalle 18, dai paesi piú lontani, sono partiti i primi scaglioni dei lavoratori inquadrati perfettamente e guidati dai segretari dei Fasci. Mentre scrivo, sui canali del Codigorese, nella zona del Volano, da Goro a Porto Garibaldi, migliaia di operai marciano verso Ferrara. Circa novemila persone nella sola zona di Codigoro compiono il viaggio silenzioso nella notte sui grandi barconi delle nostre cooperative barcai, trainati sulle rive da cavalli o da uomini. Saranno qui prima dell’alba. Dagli altri paesi giungeranno invece su carri e su biciclette. Per un raggio di venti chilometri intorno alla città la marcia sarà compiuta a piedi. Vivo un’ora di febbre. Ma domani la vittoria sarà nostra. 16 maggio. Riprendo il mio diario dopo questi giorni indimenticabili. Noto in fretta per non dimenticare. Questa battaglia superbamente vinta segna una tappa decisiva nella mia vita e forse nel corso della rivoluzione fascista. La mattina del 12 maggio sessantatremila persone sono alle porte di Ferrara. Spettacolo pittoresco. Il bracciante ferrarese incolonnato e col suo mantello, qualcuno con la coperta sulle spalle. A tracolla un tascapane con fette di polenta e pezzi di formaggio. Aspetti emaciati dalle privazioni, visi anneriti dal sole e induriti dalla polvere, ma fiduciosi ed entusiasti. Effetto straordinario della marcia all’alba: piedi mal calzati. Spettacolo commovente: l’esercito degli scalzi. Le nostre misure di precauzione hanno funzionato a meraviglia. Nei giorni precedenti, il forno comunale, dietro nostri ordini segreti, aveva fatto grande acquisto di farine. Per timore che l’acqua mancasse avevamo ridotto la razione che l’acquedotto concede ai privati, per cui tutti i serbatoi erano pieni. Un mio uomo di fiducia, Giulio Divisi, con le sue squadre volanti aveva tagliato nella notte i fili telefonici che collegano la provincia con il centro. In ogni punto di passaggio obbligato funzionavano nostri picchetti armati. I locali scolastici sono serviti per gli accantonamenti. Purtroppo non erano sufficienti e gli operai hanno bivaccato per le strade della città dormendo all’addiaccio. Il tempo è clemente e ciascuno ha sopportato il sacrificio senza la piú piccola protesta. Dalle ore 7 del mattino del giorno 12 ho bloccata l’intera vita della città. Ordine rigoroso che tutti gli alberghi, i ristoranti e i negozi di qualsiasi categoria fossero chiusi fino a nuova disposizione. Fermi i tram, bloccati gli accessi in città senza nostro permesso. L’ordine di riunione e di partenza è stato tenuto cosí segreto che le stazioni dei carabinieri dei singoli paesi non hanno potuto intervenire. Soltanto un sottufficiale dei carabinieri della provincia ha intuito l’eccezionale importanza del movimento e ha tentato di arrivare in città in motocicletta per avvisare il suo comandante di compagnia. Ma ha urtato contro la resistenza inflessibile dei fascisti disposti a tutto pur di impedirlo. Alle 7, saputo che le masse erano giunte in prossimità di Ferrara, scaglioni di cento fascisti occupano le porte della città. Squadre di avanguardisti fanno un servizio di guida. Ogni reparto di fascisti e operai dei singoli paesi è inquadrato in un battaglione e riceve, mentre sta per entrare in città, il proprio ordine di accantonamento e di incolonnamento. Funziona al centro un comitato logistico predisposto e comandato da un fascista attivissimo, il cav. Brondi. Prevediamo che difficilmente in un giorno solo si potrà risolvere la situazione: forse neppure due giorni saranno sufficienti. Tutto è predisposto affinché questa enorme massa di popolo abbia il necessario. Faccio una breve visita in famiglia per rassicurare i parenti che non mi hanno visto tornare a casa nella notte e probabilmente non mi vedranno neanche in quelle seguenti. La sola cosa che mi accora in queste battaglie fasciste sono i palpiti della mamma che da mesi e mesi sta in pena per il suo figliuolo. Per fortuna in casa mia vibra un alto spirito patriottico: sono gente forte e semplice. Via di corsa alla porta San Giorgio dove sta in questo momento incominciando l’ingresso delle popolazioni rurali del basso Ferrarese che hanno fatto 14 e 16 ore di barca per giungere sino alla darsena. Grande entusiasmo. Incomincia il concentramento al Montagnone, nell’immenso spiazzo capace di oltre centomila persone. Da tutte le porte della città affluiscono le colonne. Per mezzo di staffette mi viene comunicata la forza di ogni battaglione. Non avevo calcolato male. I convenuti sono esattamente sessantatremila. Il movimento per concentrare tutti i lavoratori al Montagnone e incolonnarli dura fino alle 9 3/4 . Alle dieci precise passo in rapida rivista le colonne e mi metto in testa al corteo. Giunge in questo momento un messo del questore che mi chiede terrorizzato un immediato colloquio per il prefetto. Rispondo che non è possibile e annuncio al prefetto che mi recherò personalmente a visitarlo alle ore 11 precise. Dò l’ordine di partenza. Inquadrati per tre mi seguono gli innumerevoli battaglioni divisi per Fascio e per paese. In testa ad ogni scaglione vengono issati cartelli inneggianti all’Italia, ma reclamanti lavoro. Facciamo il nostro ingresso dalla prospettiva di Corso Giovecca che percorriamo in tutta la sua lunghezza. Tutta la città fa ala al passaggio. Le finestre sono gremite. È ammirevole la disciplina di questa povera gente che marcia con gli abiti a brandelli, come un vecchio corpo d’armata di territoriali in raccoglimento, col passo duro e greve di campagna. La gente si commuove e applaude. Tre per tre lo sfilamento dura ore ed ore. La testa del corteo dove mi trovo, giunge davanti al Castello, piega a destra, poi gira intorno alla fossa che circonda la vecchia mole maestosa e a spire strette cinge tutto l’edificio. Il circolo si chiude a mano a mano che sopravvengono gli ultimi scaglioni: un mare di uomini vi si stringe intorno. Tutte le adiacenze del Castello sono bloccate dall’esercito della fame. Nereggiano le teste dei convenuti a perdita di vista dal fondo della Piazza della Cattedrale fino a metà del Corso Giovecca e riempiono Via Borgoleoni, Via Vittorio Emanuele, il Viale Cavour e i giardini. Mai Ferrara ha visto una simile adunata. Allo sbocco di Via Borgoleoni, un capitano delle guardie regie ha schierato la sua compagnia, ma dallo sguardo che io gli lancio passandogli a fianco egli comprende che ogni intervento è inutile. Gli mando a dire che era bene ritirasse subito la sua gente in caserma e non si facesse piú vedere se voleva evitare incidenti. Lo stesso consiglio viene portato dalle staffette ai carabinieri e alla polizia. Bisogna dire che è stato scrupolosamente seguito. Dopo quella prima apparizione non ne abbiamo visto piú traccia. Le colonne continuano a giungere. Il cerchio si chiude sempre piú stretto. Il Castello è bloccato. Alle undici faccio chiamare un rappresentante dei sindacati operai per ogni comune della provincia, due deputati e qualche uomo del direttorio federale, e con questo seguito, poco rassicurante per l’autorità, mi presento sul ponte levatoio. A un cenno, mentre sto passando la soglia, si alza un urlo dalla folla: un urlo che fa tremare i vetri dei palazzi circostanti: «Abbasso il governo, evviva l’Italia». Rintrona ancora il rombo delle innumerevoli voci quando giungo all’anticamera del prefetto. Questi mi manda a dire che vuol vedermi solo. Senza neppure replicare alla sua richiesta entro col mio seguito nel grande salone. Ecco in fondo, disegnato sul muro, il prefetto Bladier. Ha il solito panciotto bianco attraversato dalla catena d’oro sulla onesta e rotonda pancetta. Ma il viso è piú bianco del panciotto. È una buona e retta persona e dentro di me mi rammarico di dovergli dare questa terribile preoccupazione. È un compito duro, ma indispensabile. Senza preamboli, parlando con fermezza militare, gli comunico l’ultimatum: «Non ci muoveremo dalla città se non quando sarà comunicata e garantita dal governo la concessione dei lavori pubblici. Aspetteremo per 48 ore, nella città bloccata, con le armi al piede. Se questo termine scadrà e non sarà pervenuta la risposta del Governo, passeremo all’azione e il primo obbiettivo della nostra offensiva sarà la Prefettura. Inutile tentare una reazione di polizia. Siamo in sessantatremila e non ci smuoverebbe da Ferrara neppure un corpo d’armata. La città è in nostro possesso. Io mi assumo piena responsabilità dell’ordine pubblico a patto che le autorità politiche e militari non mettano il naso nelle cose nostre, nel qual caso non garantisco nulla». Non ho lasciato al povero prefetto introdurre sillaba nel mio discorso. Pallido e congestionato, ma pienamente consapevole della gravità del momento, si butta al telefono e in presenza nostra chiama il Ministro dei Lavori Pubblici. Passa qualche minuto perché il telefono ha subíto le nostre precauzioni... Poi la richiesta della comunicazione si fa piú pressante. Il Ministero risponde. Ricerca affannosa del Ministro: il Ministro Riccio non c’è! Sembra sia a Genova alla Conferenza. Lascio il prefetto ancora piú costernato, e, come sono venuto, esco seguito dal mio strano stato maggiore. In quel momento entrano nell’anticamera i padri coscritti Senatori di Ferrara. Resta anche qualche deputato che si unisce a loro. So piú tardi che il prefetto ha incaricato questa improvvisata Commissione di recarsi a Roma per trattare direttamente col Ministro, visto che non si riesce a parlare con lui telefonicamente. Il Governo avrà cosí dalla viva voce dei testimoni piú autorevoli una esposizione precisa di quello che succede a Ferrara. È mezzogiorno. Coi segretari dei Fasci siamo rimasti intesi che il primo giorno non viene distribuito nessun rancio; viceversa vengono aperti gli idranti dell’acquedotto, e a queste fontane improvvisate i lavoratori, che sbocconcellano una fetta di polenta o il loro pezzo di pane duro, corrono a dissetarsi. Non c’è angolo della città che non sia occupato dai crocchi dei braccianti, seduti in piccoli capannelli per consumare il loro pranzo modesto. Tutte le piazze e tutti i marciapiedi son pieni di campagnoli. Strano effetto della città affollata e nello stesso tempo completamente immobile. Non circolano vetture, automobili, tram: negozi, trattorie, alberghi, continuano ad avere la saracinesca abbassata: cosí sarà fino al momento della vittoria. Non posso ammettere che le trattorie funzionino. I fascisti anche abbienti devono dividere il loro pranzo con gli operai, sulla strada. Nel pomeriggio gran rapporto ai comandanti di tutti i battaglioni nel cortile delle Scuole normali. Illustro la portata dell’azione che stiamo svolgendo e l’inderogabile necessità della disciplina che ci garantisce il successo. Affido ad ogni comandante la perentoria responsabilità dell’ordine pubblico per quanto riguarda i suoi uomini. Quindi alle 16 comizio dei sessantatremila braccianti al Montagnone. Si svolge all’americana. L’immensa massa si stringe come può in una specie di quadrato e quattro diversi oratori parlano da quattro punti diversi. Mentre io tuono da una parte, in maniche di camicia, forzando come posso la mia voce, giunge dall’altra l’eco lontana del discorso di Rossoni. Applausi frenetici. Poi la folla si sparpaglia ancora per la città. Sul muro di cinta del Castello, presso i portici dei tribunali, sulle gradinate delle chiese, oratori improvvisati arringano ancora la folla fino a tarda sera. Poi i battaglioni si dirigono verso i propri accantonamenti. Sono stati stabiliti servizi d’ordine e di coordinamento. Ma la disciplina non ha subito una infrazione. Neppure un vetro delle scuole pubbliche, che sono state tutte requisite, è stato spezzato da questi rudi lavoratori dei campi. Passo anche questa notte in bianco visitando un accantonamento dietro l’altro, scambiando saluti coi camerati, pieni tutti di risoluta fermezza. Nessuno ha rotto la consegna. All’alba sono tutti presenti. Nella notte il forno comunale ha cotto oltre ventimila chili di pane e immense caldaie all’aperto hanno preparato il caffè. L’uno e l’altro vengono distribuiti lungo le strade. Intanto riprendiamo i contatti con la Prefettura. Già nella mattinata giungono le prime notizie ottimiste. La Commissione è già a Roma e si è incontrata col Sottosegretario agli Interni Casertano nonché col Ministro dei Lavori Pubblici che è stato finalmente trovato. Tutti i lavori richiesti sarebbero concessi. Ma non ci fidiamo di queste notizie generiche. Prima di sciogliere la gigantesca adunata e di rinviare alle loro case queste migliaia di lavoratori disoccupati vogliamo garanzie sicure. Il pomeriggio passa in quest’attesa, mentre la città continua ad essere paralizzata e occupata dalle Camicie nere. Alla sera giunge il telegramma del Governo con notizie piú perentorie e precise sui lavori concessi. Il prefetto esasperato vuole levarsi l’incubo della occupazione della città. Ma io so che non bisogna far troppo credito al governo demo-liberale: quindi comunico tra un entusiasmo delirante il telegramma che conferma il nostro successo, ma ordino che l’adunata si sciolga soltanto la mattina seguente al ritorno da Roma dei nostri camerati che ci daranno conferma dei risultati ottenuti. La sera di questo secondo giorno passa nella piú composta e sana allegria, senza incidente di sorta. Vengo a sapere però che un gruppo di fascisti poco disciplinati aveva progettato il sequestro del prefetto per tenerlo in ostaggio. Gesto sciocco e inutile. Intervengo prontamente per sventare ogni tentativo del genere, e passo un’altra notte insonne in movimento continuo per assicurarmi della perfetta esecuzione degli ordini rigorosi di carattere disciplinare che sono stati emanati. Ma non vi è bisogno di alcun atto di autorità. La massa continua a essere ubbidiente ed educata. Finalmente alla mattina giungono i nostri camerati da Roma. Abbiamo la certezza che tutte le nostre domande sono state accolte: il programma dei lavori pubblici che interessa le varie zone della provincia comincerà ad essere messo in esecuzione nei primi giorni della settimana prossima. La vittoria è completa. Lancio l’ordine di smobilitazione. Con la stessa disposizione con cui sono arrivati e con gli stessi mezzi i lavoratori sono ritornati alle loro case con la certezza che ormai non mancherà piú il lavoro e il pane. Ricevo plausi da ogni parte d’Italia. I camerati delle piú lontane provincie sono rimasti sbalorditi dalla prova di forza del Fascismo ferrarese. Ma un articolo di Mussolini comparso stamane sul Popolo d’Italia con titolo «Viva Ferrara Fascista!» ci dà l’ultima e piú grande soddisfazione. Straordinario il nesso politico tra l’avvenimento ferrarese e la situazione generale italiana, nonché le deduzioni che il Duce trae dall’adunata dei 63 mila lavoratori. Noto qui qualche periodo che dovrà essere divulgato e illustrato tra i nostri camerati : «... le giornate di Ferrara hanno dimostrato in primo luogo che il Fascismo dispone di masse enormi di autentici lavoratori... A sentire i Zirardini, i Bogiankino, e tutta la coorte dei principi e baroni, chierici e scudieri dell’ ancien régime bolscevico, spodestati per sempre dalla rivoluzione fascista, i lavoratori aggregati ai Fasci non sarebbero dei convinti, ma dei prigionieri, non dei coscienti, ma degli schiavi, ferocemente terrorizzati, cosí come fa, ad esempio, la Ceka in Russia, ma come non ha fatto, non fa e non farà mai il Fascismo italiano. Ora è accaduto che questi schiavi, questi prigionieri, questi terrorizzati, si sono raccolti in numero di ben 50 mila dentro una città e non sono insorti contro i loro carnefici. Poteva darsi una piú propizia occasione per disfarsi dei pochi uomini che dirigono il Fascismo ferrare se? » Mussolini si domanda perché l’enorme folla dei terrorizzati non si è ammutinata ma invece ha obbedito entusiasticamente agli ordini ricevuti, e batte in breccia l’ Avanti! che dà alla nostra adunata una interpretazione velenosa, definendola una scimmiottatura bolscevica e conclude con queste parole per noi commoventi: «A questo punto un ricordo personale s’affaccia alla mia memoria: nell’aprile dell’anno scorso, a Ferrara, fui accolto da manifestazioni di popolo entusiastiche sino al delirio! Fu notato che io — piú che travolto dalla commozione generale — mi tenevo riservato e pensoso. In realtà, ero assillato da un pensiero: mentre sentivo la grandezza dell’ora, avrei voluto sondare la profondità del capovolgimento spirituale operatosi, cosí rapidamente, in quelle popolazioni. Effimero o duraturo? Esteriorità o sostanza? Un’ondata che passa o qualche cosa che resta? A un anno di distanza, questi interrogativi ricevono la piú luminosa e categorica delle risposte. Ciò che si è operato nel Ferrarese non appartiene al regno degli effimeri. È duraturo. Noi, che non siamo socialisti, non ipotechiamo tutto l’avvenire, che i nostri saggi padri deponevano in grembo a Giove. Ci limitiamo soltanto ad affermare che le giornate di Ferrara sono la consacrazione di un grande fatto compiuto; sono il sigillo di una vittoria conquistata con duro sforzo, con assidua tenacia, con inesauribile fede. «Onore dunque a Ferrara fascista! Onore ai morti, ai pionieri, ai capi, ai gregari tutti del Fascismo ferrarese!». Questo articolo mi ha fatto l’effetto di un elogio sul campo di battaglia. 17 maggio. Il commento dell’ Avanti! è cosí enorme nella sua falsità che i fascisti ferraresi hanno ieri largamente distribuito manifestini con queste parole: «Operai fascisti e cittadini! «Volete conoscere la verità vera sul nostro sciopero generale? Leggete l’ Avanti! di ieri domenica 14 maggio. Merita di essere letto! Bisogna leggerlo ad ogni costo. Perché è piú stupefacente della cocaina! I FASCISTI DELLA PROVINCIA DI FERRARA». Per mettere i cittadini in condizione di leggere il giornale socialista, sono state acquistate a Bologna molte copie dell’ Avanti! e sono state attaccate in parecchi punti della città. Grande ilarità nel pubblico. Il ricordo dell’avvenimento è troppo recente e i testimoni sono troppo numerosi: tutti coloro che abitano a Ferrara. 19 maggio. Sono di ritorno da Roma dove si è riunita ieri la Direzione del Partito. Ier l’altro ero a Milano da Mussolini. Il Capo prima, i camerati della Direzione poi, mi hanno tributato un grande plauso per l’azione svolta a Ferrara. Questo episodio ha fatto grande impressione nei fascisti italiani per il modo con cui è stato condotto e per l’esito vittorioso che lo ha coronato. Mussolini mi ha abbracciato. 23 maggio. Per la mancata convalida della elezione di Piccinato a Rovigo i fascisti hanno proceduto all’occupazione della città con lo stesso sistema da noi seguito nel Ferrarese: mobilitazione dei Fasci della provincia, passaggio dei poteri dal Direttorio alla Milizia fascista, ecc. Tre giorni di occupazione. Sono stato invitato a recarmi a Rovigo. Vi fui nel pomeriggio del 20, ma ne sono venuto via subito. Il Fascismo purtroppo si innamora dei gesti e tende al mimetismo. Ma l’adunata e l’occupazione di Ferrara avevano per presupposto una grave questione operaia. Mi pare che a Rovigo i mezzi non corrispondano al fine. Tra l’altro era impossibile arrivare a un risultato positivo. Non è serio, secondo me, mobilitare una intera provincia per un deputato defenestrato. Non che Piccinato non meriti la solidarietà dei suoi amici. Il Partito si agita troppo per questi deputati minorenni. Il parlamentarismo minaccia dunque di fare un po’ di breccia anche nelle nostre squadre? Ad ogni modo la dimostrazione polesana, come io prevedevo, è finita nel nulla. 26 maggio. A Bologna sta ingrossando una situazione rivoluzionaria. Sembra che i sovversivi tentino un ultimo colpo disperato. Da qualche giorno la caccia al fascista è diventata sistematica. Inoltre il prefetto Mori applica con zelo le istruzioni romane: i fascisti debbono essere trattati alla stessa stregua dei socialisti. Se almeno questa massima fosse realizzata con imparzialità! Ma in mille occasioni il prefetto favorisce apertamente i rossi. Nella questione politica è innestata una grossa questione sindacale. L’ufficio di collocamento dei nostri sindacati non è riconosciuto e i lavori della Bonifica Renana sono affidati agli operai socialisti. Inoltre, a Bologna come a Ferrara, il Governo non viene incontro ai disoccupati e stenta ad iniziare un congruo programma di lavori pubblici. Cosí lo stillicidio delle violenze quotidiane riempie di lutto la cronaca italiana, esasperando la situazione politica, mentre si fa piú pressante e quasi angosciosa la situazione economica. Se i comunisti tentano una riscossa in grande stile, come fa credere l’aggressione romana durante le cerimonie per Enrico Toti e lo sciopero generale che si tenta nella capitale, come confermano le aggressioni raddoppiate di questi giorni, occorre da parte fascista uscire dal circolo tragico e passare a una azione definitiva. Si marcia verso l’epilogo rivoluzionario del Fascismo, che non può essere altro che la conquista del potere. 27 maggio. La situazione nel Bolognese si è improvvisamente aggravata. È stato ucciso uno dei piú noti e animosi fascisti di Bologna, Celestino Cavedoni. L’autorità tenta di far credere che sia rimasto ucciso da una bomba che egli stesso lanciava contro i socialisti. È una turpe speculazione sul cadavere del nostro camerata. Questo attentato è l’ultimo di una lunga catena. Ogni giorno qualche fascista è ferito o ucciso. Il prefetto aggrava la situazione vietando la circolazione e l’importazione della mano d’opera dei sindacati di Budrio, Molinella, Medicina e Sesto Imolese. Il decreto, che si dice determinato dalla disoccupazione, mira invece a proteggere le leghe rosse dallo sfacelo e a indurre tutti gli agricoltori ad accettare il monopolio dei socialisti. In una lettera sequestrata a Giulio Zanardi, fratello dell’ex-podestà di Bologna, si assicura che il prefetto è con i socialisti, e che se non esplica una maggiore attività antifascista, si deve al fatto che molti funzionari non lo ubbidiscono ciecamente. Sono stato oggi a Bologna. È stata decisa un’azione a grandi masse di cui io stesso assumerò il comando e la responsabilità. Il Direttorio del Fascio di Bologna ha ceduto i poteri a una Commissione Esecutiva di tre membri. Lancio l’ordine di mobilitazione alle provincie di Ferrara, Bologna, Modena e Mantova. Bologna prende già l’aspetto di guerra. Cortei fascisti, urti con le guardie regie e con i funzionari di pubblica sicurezza, discorsi di capi fascisti nei centri della città, assalti di squadre alla camera confederale socialista, alla federazione dei lavoratori della terra, all’ente autonomo, alle cooperative socialiste. Lo spirito dei camerati bolognesi è altissimo. 29 maggio - Bologna. È incominciata l’occupazione della città. Il mio Quartier generale è alla sede della Federazione Fascista in Via Marsala. Gli ordini di mobilitazione lanciati nelle provincie vicine sono eseguiti alla perfezione. Magnifici i fascisti ferraresi. Prime squadre arrivate quelle del Codigorese, Portuense e Copparese: gruppi di mille fascisti ciascuna. Debbono restare in città trenta ore, poi darsi il cambio con le squadre degli altri paesi in modo che vi siano in permanenza a Bologna almeno 2500 fascisti di Ferrara. Inquadramento ancora piú perfetto di venti giorni fa al tempo dell’occupazione di Ferrara. Ho cercato di mobilitare reparti che non sono mai stati impegnati a fondo, ma che hanno avuto nelle azioni precedenti cómpiti secondari. Sono inquadrati da ottimi comandanti. Quelli di Copparo hanno fatto una prova stupenda agli ordini di Renzo Chierici. Spirito battagliero e disciplina di ferro. Quelli di Codigoro hanno percorso oltre cento chilometri marciando in ordine perfetto: ricevuto il comando di partire alle 24 sono giunti alle 8 di stamani. I fascisti di Mantova, guidati da Moschini, giunti oggi. Affluiscono reparti di Modena e qualche fascista dalla Romagna. Dei dirigenti ferraresi, ho portato con me Umberto Albini e Caretti che non mi lasciano mai. In totale oltre 20.000 fascisti concentrati a Bologna. Il prefetto, bloccato a Palazzo d’Accursio, sa che non desisteremo dalla lotta fino al momento in cui il Governo non si persuaderà a cessare la protezione ai sovversivi. Stasera grande dimostrazione in Piazza Vittorio Emanuele. Dai canti di «Giovinezza» alle salve di fischi e di abbasso. Palazzo d’Accursio trasformato in caserma di guardie regie, carabinieri, agenti in borghese, squadroni di cavalleria. Evoluzioni di prammatica. Il vicerè ha ordinato la sospensione del transito. Cordoni su quattro e sei file. Abbiamo trovato un nuovo sistema per sfondare i cordoni. Non piú l’impeto disordinato e senz’ordine della folla, ma finta pressione e manovra diversiva da una parte e contemporaneamente azione in forza dal lato opposto. Abbiamo sempre potuto sfondare. Quando si muovono squadroni a cavallo, i fascisti non devono fuggire ma restar fermi agitando fazzoletti bianchi e cappelli. I cavalli si spaventano, si inalberano e buttano giú di sella i cavalieri. Altro sistema: getto di petardi, di bombette e di racchette-razzo alle spalle degli squadroni a cavallo: esito uguale: cavalli spaventati e sfondamento matematico dei cordoni. Stamani siamo stati cosí in permanenza padroni della piazza. I fascisti bolognesi sono instancabili: Arpinati guida sempre un gruppo di disperati, costantemente in prima linea. Dimostrazione al carcere dopo l’arresto di 18 fascisti. Vi sono a San Giovanni in Monte oltre 60 nostri detenuti. All’arrivo degli ultimi arrestati grande dimostrazione nell’interno del carcere. Sono stati sfasciati gli usci di quattro stanzoni e appiccato il fuoco ai pagliericci. Forza pubblica e secondini al lavoro. I detenuti hanno costituito il « gruppo dei detenuti fascisti» e mi hanno pregato di andarlo a inaugurare: per ora è impossibile! troppo presto! Ma potrebbe avvenire domani. Anzi, poco è mancato non fossi arrestato stasera. Durante la dimostrazione in piazza fra gli squadroni a cavallo sono rimasto con un gruppo di camerati, sullo zoccolo del monumento a Vittorio Emanuele, completamente isolato dal grosso della massa fascista. Allora ho arringato le guardie regie. Sono in gran parte vecchi soldati arruolati in un corpo di scherani di polizia. Li ho invitati a ricordarsi del passato. La loro situazione presente è umiliante. Grande furore del Generale della Regia Guardia a cui ho risposto senza complimenti. Un gruppo di agenti dopo una colluttazione è riuscito a bloccarmi e stava trascinandomi dentro Palazzo d’Accursio, ma una cinquantina di fascisti che mi erano vicini è piombata su di loro liberandomi immediatamente. Continue cariche di cavalleria. I fascisti le bloccano agitando i fazzoletti bianchi sui bastoni e battendo a distesa sulle campane dei trams: concerto assordante. I complimenti diretti al prefetto sono abbondantemente raccolti anche dal questore e dal vice-questore. Alcuni funzionari di Bologna sono particolarmente invisi ai fascisti: incidenti quindi ai commissari Ingrassia e Reitano. Minaccia di fare avanzare l’autoblindata. Ma è rimasta ferma sotto la volta di Palazzo d’Accursio. Molti ufficiali dell’Esercito simpatizzano con noi: stamane, mentre agenti di questura malmenavano due arrestati fascisti, gli ufficiali sono intervenuti redarguendo i poliziotti. Grandi applausi dai fascisti. In generale i reparti di truppa costretti a eseguire gli ordini del prefetto sono trattati con grande deferenza dai nostri. Spesso applauditi. Questa notte Bologna rigurgita di camicie nere. Gli accantonamenti che ho prestabilito per i vari reparti non basteranno. I due terzi dei fascisti dovranno dormire sotto i portici di Via Indipendenza, del Pavaglione, di Via Farini e delle altre strade maggiori del centro. 30 maggio. La mobilitazione procede sempre piú imponente. Ecco il manifesto lanciato stamani per Bologna dal Comitato esecutivo della città: « Ai Fasci e ai Cittadini della Provincia. «Da oltre un anno stiamo lottando contro i partiti antinazionali protetti ignominiosamente dal prefetto Mori che si è fatto strumento cieco di ogni loro azione. Abbiamo resistito alle violenze e alle persecuzioni, e fra la incomprensione di molti e le ostilità di moltissimi abbiamo creato vicino ai Fasci una poderosa organizzazione di lavoratori ai quali abbiamo insegnato a difendere i propri diritti e a compiere i propri doveri. Ci proponevamo con questo di affermarci sul terreno delle lotte economiche restituendo alla Patria i lavoratori che inconsciamente l’avevano rinnegata. Il prefetto Mori, avendoci trovati invincibili, ha tentato di indebolire le nostre organizzazioni sindacali affamando i nostri operai con un decreto che rappresenta il gesto incosciente di uno Stato che vilmente si uccide. Ma gli operai dei sindacati non saranno affamati perché i fascisti combatteranno con essi e per essi. La Commissione esecutiva della Federazione è da questo momento dimissionaria e lascia il posto a un Comitato interprovinciale di azione. «Fascisti! «È giunta l’ora della battaglia: ricordatevi che bisogna vincere. Firmato: La Commissione Esecutiva». Cosí anche la Commissione esecutiva dei tre membri nominata il giorno 27 è dimissionaria, e io assumo, come Ispettore generale delle squadre di combattimento, la direzione generale e la responsabilità dell’azione. È arrivato stamani il Direttore generale della P. S., senatore Vigliani. Questo avvenimento non mi interessa affatto. Abbandono il Senatore ai colloqui che egli ha invocato con i nostri valorosi parlamentari Grandi e Oviglio. So che sta per recarsi da lui persino il senatore Sitta. Se il Governo spera di risolvere la situazione con queste interviste, sta fresco! La giornata è passata tutta in grandiose dimostrazioni e in operazioni manovrate delle squadre fasciste intorno a Palazzo d’Accursio. È un continuo scoppio di petardi, di bombette e di razzi. I fascisti ferraresi continuano a giungere da Porta Galliera e dànno man forte ai camerati di Bologna. Sfondare i cordoni, imbizzarrire i cavalli e aver ragione della forza pubblica è ormai diventato un esercizio divertente nel quale le nostre squadre sono sperimentatissime. Quantunque il prefetto abbia l’aria di intensificare la resistenza e si ostini a far sgombrare la Piazza Vittorio Emanuele, noi ci ostiniamo a tenere proprio in questa piazza i nostri comizi. Vi ho parlato oggi tre volte. I lunghi viaggi in bicicletta o in camion, la vita di privazioni e di battaglia e il breve riposo notturno sulla paglia non hanno per nulla stancato gli squadristi il cui umore è allegro e baldanzoso. Bisogna saperli guidare con una certa giovanile gaiezza. Si divertono un mondo alle beffe che organizzano contro il prefetto. Questa adunata di Bologna non ha nulla di feroce: tende piuttosto a seppellire nel ridicolo il vicerè Mori, tanto prepotente fino alla settimana scorsa e oggi ridotto all’impotenza. Un problema che sembrava insuperabile e si è risolto invece felicemente, è stato quello degli accantonamenti notturni. Sono state portate a Bologna su camions grandi quantità di paglia compressa. Quando ho accennato all’idea di far dormire sulla paglia le migliaia e migliaia di fascisti qui convenuti, per poco i miei amici non mi hanno riso in faccia. Invece lo spettacolo dell’occupazione notturna dei portici è riuscita imponente e ha aumentato il lato pittoresco dell’assedio alla cittadella del prefetto. I cittadini bolognesi si recano la notte a vedere lo spettacolo e aiutano come possono i nostri squadristi elargendo coperte. La notte scorsa un gruppo di guardie regie si è avvicinato a un reparto di fascisti che dormiva profondamente dopo le fatiche della giornata, in un angolo dei portici del Pavaglione. Purtroppo anche le nostre vedette si erano addormentate. Cosicché stamani sono venuti da me confusi e umiliati a confessare che erano senz’armi. Le guardie regie, infatti, approfittando dell’invincibile sonno di quei ragazzi, avevano portato via moschetti, rivoltelle e perfino i bastoni. Ma oggi lo scherzo è stato ripagato di uguale moneta. Abbiamo tratto in arresto e disarmate un certo numero di guardie regie. Cosí al nostro reparto spogliato nella notte sono state date in cambio le armi della forza pubblica. Beffa contro beffa. Oggi Michele Bianchi è arrivato a Bologna. I giornali pubblicano il suo manifesto: «La lotta di Bologna si accentua e si estende. È stato diramato l’ordine di mobilitazione delle forze fasciste anche alle provincie di Ferrara e di Modena, di dove sono giunte le prime squadre, alcune delle quali hanno percorso in bicicletta oltre cento chilometri equipaggiate di tutto punto, dalle coperte da campo ai viveri a secco. Segnalo al plauso di tutti i fascisti d’Italia i fascisti ferraresi e modenesi». 31 maggio. Stasera son giunti i piú grossi nuclei di fascisti ferraresi. La popolazione bolognese ne ha salutato l’ingresso alle 21,30 in via Indipendenza ed ha fatto alle nostre squadre, sudate e polverose per la lunga marcia ma piene di fresca baldanza, una grande dimostrazione. La marcia dei ferraresi è stata veloce e disciplinata. Naturalmente attraversando la zona delle baronie rosse di Molinella non hanno mancato di improvvisare azioni fulminee. Sono tutti in bicicletta. Giunti alla Federazione, io stesso li ho guidati verso la Piazza Vittorio Emanuele dove per l’ennesima volta sono stati sfondati i cordoni. Discorsi miei e dei camerati bolognesi: preparativi per i bivacchi sulla paglia. Il Pavaglione ha cessato di essere il luogo di ritrovo dei nottambuli oziosi e durante il giorno il luogo di convegno e di esibizione delle signorine in cerca di marito. Sembra un quartiere di una città della zona di guerra dove i fanti reduci dalle trincee andavano a riposo. Oggi hanno funzionato piú regolarmente anche le refezioni agli squadristi giunti da lontano: scatolette di carne e pane. Non mancano simpatiche offerte di cittadini che inviano viveri e denaro alla Federazione e al Fascio. Nella notte di ieri bomba anarchica in via Farini presso la calzoleria Andreoli. La questura non si rende conto che, per fronteggiare le forze nazionali dei fascisti, abbandona i nuclei sovversivi ai loro istinti piú bestiali. Per fortuna i fascisti sanno guardarsi da soli. Dopo tanti giorni di agitazione e con un cosí imponente numero di squadristi mobilitati, non contiamo che due feriti non gravi. Essi sono stati vittime dello scontro coi comunisti avvenuto oggi alle 17 allo scalo di S. Vitale. Le nostre dimostrazioni continuano a stringere invece il prefetto in una cerchia sempre piú stretta di beffe. Quest’oggi, aggiustando bene il tiro, alcune castagnole sono finalmente arrivate ai vetri della abitazione privata di Mori al secondo piano del Palazzo D’Accursio. L’esplosione del tutto innocua è stata formidabile: sufficiente, ci hanno detto, a far perdere la testa ai custodi del Palazzo. Alcune pattuglie fasciste hanno potuto anche infilare le scale della prefettura e se non avessero trovato un cancello di ferro che protegge l’appartamento del vicerè, avrebbero potuto penetrarvi di sorpresa. L’incontro non sarebbe stato dei piú amorevoli. Sono stato in queste notti, non appena cessavano le azioni di piazza, a conversare col direttore del Resto del Carlino, il dott. Nello Quilici, che Remo Magri mi ha presentato la prima sera. Il giornale è in linea e ci fiancheggia valorosamente. Ormai siamo diventati molto amici col direttore, che si diverte ai racconti delle beffe che intramezzano le azioni di forza. Egli non ha alcuna fiducia nel prefetto Mori che è stato oggetto di attacchi violenti del Carlino in tutte queste ultime settimane. Un articolo di Quilici è stato integralmente riprodotto ieri l’altro dal Popolo d’Italia. Il giornale sostiene questa tesi: che è assurdo il tentativo di risolvere con sistemi di polizia la questione politica creata dal Fascismo in Italia. Occorre un radicale cambiamento di regime. Tesi rivoluzionaria che ha suscitato i furori dell’ Avanti! e gli sdegni del Corriere della Sera. Ma mi dicono che il direttore del Carlino è iscritto ai Fasci dal ’21. La sede del giornale sino a ieri infestata da vecchi neutralisti filobolscevichi è diventata per noi un ritrovo familiare. Abbiamo scherzato sulle apparenze massoniche di quella sala. Però sotto le colonne, invece di un Venerabile, ho trovato la sorella del dott. Quilici che funge da segretaria. Una giovane bruna con due lauree ma senza aspetto professorale. Proprio per questo la stuzzico chiamandola professoressa. Ella, che è una fervida amica nostra, si offende solo quando pronuncio questa parola. 2 giugno - Bologna. L’agitazione e l’occupazione di Bologna, che è durata complessivamente cinque giorni, ha avuto termine oggi dietro ordine di Mussolini. Come erano stati fulminei nella mobilitazione, cosí i fascisti hanno ubbidito immediatamente e senza il piú piccolo incidente agli ordini di partenza e di scioglimento che noi abbiamo loro comunicato in nome del Duce. Proprio oggi erano arrivate alle 15 le ultime squadre ciclistiche del Ferrarese: duemila fascisti che avevano compiuto ottanta chilometri di marcia ininterrotta. Sono corso loro incontro alla Bolognina, là dove fino a ieri era il quartiere piú infetto del comunismo bolognese. Hanno sfilato davanti a me e davanti ai capi del fascismo di Bologna facendo il saluto in ordine perfetto sulle loro biciclette impolverate. Ma non appena giunti a Bologna, ho comunicato loro che l’agitazione era sospesa. «Ordine di Mussolini!». Nessuna osservazione dopo il primo movimento di disinganno: «Dobbiamo tornarcene; va bene! è ordine di Mussolini!». Se ne vanno cantando «Giovinezza» sul lungo percorso degli ottanta chilometri. Lo spettacolo di disciplina che oggi hanno dato tutte le nostre squadre è superbo. Ecco la lettera che Mussolini ci ha diretto da Roma: «Cari amici, bisogna sospendere per un tempo che sarà assai breve la vostra magnifica azione. Lo Stato ha voluto mostrare, per la prima volta contro di noi e dopo infinite abdicazioni, la sua capacità di esistenza e di resistenza. Prendiamo atto: ma vedremo quale sarà il suo contegno nei confronti degli elementi antinazionali e quale seguito avrà l’inchiesta di Vigliani. Nell’attesa una pausa s’impone. Non dobbiamo estenuare le nostre superbe milizie. Con la stessa disciplina della vostra mobilitazione, sono certo che ubbidirete al mio ordine. Questo esempio farà epoca nella storia italiana. Prendo formale impegno, nel caso che si rendesse necessaria una ripresa dell’agitazione, di venire tra voi a capeggiarla. Ma avrà allora ampiezza piú vasta e piú lontani obbiettivi. Conto su di voi e vi saluto». Bastano queste ultime parole per elettrizzarci. I fascisti comprendono che il giorno della riscossa generale non è lontano. Ho fatto affiggere per mezzo di staffette questi manifestini alle cantonate: «Benito Mussolini ci ha ordinato di sospendere per il momento ogni azione. Noi che siamo soprattutto dei soldati, ubbidiamo. Le squadre fasciste, pronte al confine della provincia, in tutti i paesi del bolognese, sospendano immediatamente la partenza e attendano disciplinate nuovi ordini. Le squadre che sono già in città passino al Comando per ricevere ordini e rientrare nelle loro sedi». Altro ordine affisso per tutte le strade cittadine: «In seguito all’ordine emanato dal Comando fascista, cessa da questo momento la ragione della chiusura degli esercizi e dei locali. Tutte le categorie dei cittadini, e in ispecie i fascisti, debbono adoperarsi perché la città e la provincia riprendano la loro vita normale». Oggi a mezzogiorno l’ordine di sospensione era comunicato per mezzo di staffette a tutti i Fasci delle provincie interessate. Si stanno riattivando le comunicazioni telegrafiche e telefoniche. In un baleno le vie sono sgombre di fascisti. La città ha ripreso l’aspetto normale. Le ultime squadre in partenza per la provincia sono salutate dai cittadini con salve continue di applausi. Questa smobilitazione, da un certo punto di vista, per la sua rapidità e perfezione, è piú imponente dell’inizio dell’azione. 3 giugno - Bologna. Riceviamo Grandi e io questo telegramma da Mussolini: «La vostra meravigliosa disciplina farà epoca nella storia d’Italia. Obbedendo oggi conquistate il diritto di comandare domani per le maggiori fortune della Patria. Vi abbraccio tutti capi e gregari - Mussolini». I giornali pubblicano queste parole di Michele Bianchi: «Come Segretario generale del Partito Nazionale Fascista e interpretando il sentimento di tutti i cinquecentomila fascisti italiani, do il plauso piú pieno ai fascisti bolognesi e ai fascisti emiliani tutti. E voglio conferire pubblicamente un encomio solenne all’Ispettore generale delle squadre di combattimento della 2 a Zona, Italo Balbo, al Segretario generale provinciale dei Fasci, rag. Gino Baroncini, al Segretario politico del Fascio di Bologna, Leandro Arpinati, e a tutti i loro collaboratori per il modo come hanno condotto la battaglia». Io aggiungo però ch’è piacevole affrontare dure situazioni e gravi responsabilità fra i cari e valorosissimi fascisti bolognesi, ed i loro intrepidi Capi, Arpinati, Baroncini, e Grandi. 5 giugno. Rispetto agli obbiettivi immediati le giornate di Bologna non hanno avuto grande importanza. Nonostante le promesse fatte dal Governo, si può essere certi che il prefetto Mori non verrà per ora allontanato da Bologna. Del resto, a parte lo zelo che egli da funzionario testardo mette nell’eseguire gli ordini che riceve, è piú che certo che la sua politica non è personale. La contraddizione tra il parere e l’essere, tra il volere e l’agire, tra le parole e i fatti, sta a Roma, dove le forze contrarie, nazionali ed antinazionali, fasciste ed antifasciste, si elidono a vicenda nel seno stesso del Ministero. In fondo, meglio cosí. Un Governo forte e coerente di estrema destra ci avrebbe forse tagliato la strada per i prossimi mesi, senza per questo salvare la vita al regime liberale, che è veramente in pezzi. A me preme soprattutto la buona prova delle squadre. È stato un esperimento che ha dimostrato la loro mobilità. Fino a ieri la squadra fascista di cento o duecento uomini agiva all’ombra del proprio campanile. Conosceva appena il capo locale e aveva visto da lontano il comandante della provincia. Nell’adunata di Bologna si è spostata dal proprio paese, ha combattuto per fini politici che trascendevano la mentalità campagnola. Ha ubbidito a capi sconosciuti. Si è trasportata da un campo all’altro della battaglia, sempre con duttile e pronta aderenza agli ordini. Truppa volante, capace di resistere nella battaglia civile per piú giorni senza lamentarsi. Ha dormito sulla paglia, ha mangiato scatolette di carne quando capitavano. È, piú che altro, si è ingaggiata contro reparti armati, squadroni di cavalleria e perfino autoblindate, che occhieggiavano nell’atrio di Palazzo d’Accursio. Ciò vuol dire che l’episodio di Bologna, che io considero una specie di grande manovra delle forze fasciste emiliane, può essere ripetuto in proporzioni piú vaste nel momento della rivolta ai poteri costituiti. Prova generale della rivoluzione. Per i capi esercizio di comando, per i gregari scuola di disciplina militare. Il fuoco non spaventerà domani i fascisti. Se la manovra esige un trasporto celere di battaglioni dal nord al centro, siamo sicuri che le squadre marceranno con qualsiasi mezzo, celeri, parsimoniose, disciplinate, ardenti. È quanto mi basta. Bisognerà ripetere questi esperimenti. Impegnare altri reparti. Calcolo che nei cinque giorni dell’agitazione bolognese sessantamila fascisti siano stati impiegati. Non ho a lamentarmi di nessuno. Spirito alto, rispondenza assoluta. 16 luglio. Zanella si è recato a Belgrado per trafficare con gli jugoslavi. Da Belgrado ha mandato lunghe proteste alla Società delle Nazioni e alla Conferenza di Genova contro l’Italia, che avrebbe usurpato i suoi legittimi poteri a Fiume. Il conte Manzoni ha commesso l’enorme errore di riceverlo alla Legazione italiana, dando credito cosí alle millanterie del rinnegato. È una cosa senza attenuanti. Leggo sui giornali che il Ministro degli Esteri Schanzer lo avrebbe fulmineamente destituito. Se il fatto è vero, il nostro Governo manifesta un’energia che i baffi di Facta non lasciavano sospettare. Ma la notizia attende conferma. Questo brusco richiamo a Roma non preluderà alla nomina del conte Manzoni ad Ambasciatore? Non diamo troppa corda al nostro ottimismo. Sotto questo Governo tutto è possibile. A parole i nostri statisti sono terribili. Ma i fatti sono sempre in contrasto con le promesse. 17 luglio. La cronaca è piena di delitti politici. Siamo ritornati al ’21? Due o tre camerati nostri cadono ogni giorno. Caratteristica di questo periodo: i poveri martiri sono quasi tutti contadini e operai. Quando fu ucciso Breviglieri, operaio metallurgico ferrarese, tutti si stupirono. I nostri avversari avevano imbottito il cranio dei loro lettori, sui giornali sovversivi, affermando che il Fascismo era tutto composto di piccola borghesia trasformata in guardia bianca del capitalismo. C’è ancora molta gente, nelle regioni dove il Fascismo non è entrato in profondità, che crede un bluff la nostra organizzazione operaia. Quando si parla di 700 mila lavoratori inquadrati sotto i gagliardetti, i socialisti sogghignano. La verità si fa strada attraverso il sacrificio dei poveri operai, che in questi giorni sono uccisi dagli avversari. Eroica testimonianza. Debbo confessare che mi sento piú vicino, spesso, a un umile lavoratore della campagna, che ai sofistici politicanti della città, anche se questi ostentano un superfascismo. 18 luglio. Il conte Manzoni è stato chiamato a Roma soltanto per conferire e dare spiegazioni. Cosí dicono i giornali. Pareva impossibile lo scatto di energia della Consulta. Infatti la notizia d’oggi rimette le cose a posto: è impossibile alle pecore diventar lupi, e agli asini cavalli. 19 luglio. Siamo di nuovo alla crisi ministeriale. Quattro o cinque in dodici mesi. Come al solito, sono i popolari che determinano la crisi. La politica del pipí non si propone alcuno scopo ideale, non ha programmi di restaurazione, neppure vuole il potere: esercita il ricatto quotidiano in attesa di piccoli vantaggi immediati. Autorità extra-parlamentare di don Sturzo. Dicono che presieda persino alla nomina dei segretari particolari dei Ministri. Qualcuno era sconosciuto anche a chi doveva assumerlo! Per conto mio non me ne indigno. Quanto peggio funziona la vita costituzionale, tanto meglio si dimostra la necessità di una trasformazione radicale dello Stato. Ma sono ammirato per l’arte che Mussolini dimostra nel manovrare. Quest’uomo, venuto dalla piazza, conosce il giuoco di eludere gli avversari e di raggiungere i suoi fini come un vecchio nocchiere. Fulminea mossa strategica di distacco dalle destre. I fascisti si mettono per conto loro. Forse era preparato nell’ombra un grande minestrone con partecipazione di fascisti. Tutti tendono a comprometterci. Una partecipazione parziale nostra svuoterebbe il Partito di ogni dinamismo rivoluzionario. Magnifico discorso del Duce: «Le ragioni che ci spingono a questa decisione, che può avere anche delle ripercussioni in seno a quella che si può chiamare destra nazionale, sono ragioni squisitamente politiche che prescindono in un certo senso dalla situazione parlamentare. «...Se per avventura da questa crisi, che è ormai in atto, dovesse uscire un Governo antifascista, prendete atto che noi reagiremo con la massima inflessibilità e con la massima energia. «... Noi alla reazione risponderemo insorgendo. «... Il Fascismo è una forza che voi socialisti non dovete piú ignorare. Io preferisco che esso arrivi a partecipare alla vita dello Stato attraverso le vie normali, ma anche la seconda eventualità dovevo per obbligo di coscienza prospettare, perché ognuno di voi, nella crisi di domani, preparando la soluzione, tenga conto di queste dichiarazioni, che io affido alla vostra coscie nza» . Qu esto si chiama parlar chiaro. Domani riunione della Direzione del Partito. Parto per Roma. 21 luglio - Roma. La Direzione del Partito si è riunita in Piazza San Claudio. Trovo Bianchi, Sansanelli, Teruzzi, Starace, Postiglione, Marinelli. C’è anche Massimo Rocca, davanti all’oratoria del quale occorre premunirsi di ombrello: per spiegare i reconditi significati della crisi, sputa addosso ai vicini per un quarto d’ora. Vi sono anche i camerati del gruppo parlamentare. Non tutti in verità. È strano come questi amici mettano il mondo a soqquadro nei giorni delle elezioni, e si squaglino alle riunioni piú importanti. Tutti unanimi nell’approvare la linea di condotta di Mussolini. Ciascuno presente lo sviluppo rivoluzionario di questa situazione. 21 luglio - Roma. Ieri sera nuova riunione della Direzione. Mussolini redigerà un manifesto da lanciare ai fascisti. La tattica che è stata seguita ci ha permesso di diradare molti equivoci. Benissimo l’intervista di Michele Bianchi sul Resto del Carlino: «... Quanto ai rapporti con gli altri gruppi di destra, essi sono stati sempre un po’ artificiosi. I liberali e i nazionalisti non hanno Partito, non hanno masse; essi si muovono soltanto nell’ambiente di Montecitorio: noi invece siamo una forza viva, reale, palpitante della Nazione. Anche per l’avvenire perciò io considero i nostri rapporti con i gruppi di destra alquanto elastici e condizionati alle singole esigenze del momento. Il gruppo fascista ha il Partito alle spalle e anche statutariamente ogni sua deliberazione di carattere politico generale deve essere sottoposta all’approvazione della Direzione del Partito e del Consiglio Nazionale». Stranezza della situazione presente: noi abbiamo alla Camera trentadue deputati con un Partito di trecento mila iscritti. Molti uomini politici sono stati eletti esclusivamente per i nostri voti nei blocchi del ’21: Bonomi, Celli, Alessio, Sacchi. Ora sono contro di noi. Paradosso in atto. 23 luglio - Roma. Furori assurdi dei nazionalisti per il discorso Mussolini alla Camera e per l’intervista di Bianchi. Sarebbe interessante sapere chi ha scritto l’articolo di ieri sera dell’ Idea Nazionale: «Non crediamo che sia questo il momento piú opportuno per discutere a fondo i rapporti passati e futuri del Fascismo con gli altri partiti nazionali. Non possiamo tuttavia consentire che tali rapporti, che finora hanno trovato la loro espressione concreta nell’azione solidale della destra nazionale, siano definiti artificiosi. La destra nazionale ha adempiuto a una grande funzione, che se è riuscita sommamente utile al paese, ha soprattutto beneficiato il Fascismo come Partito, e mostra di avere scarso senso politico chi voglia oggi disconoscerne il valore o diminuirne la portata...». Esagerati! Non è vero proprio il rovescio? Ma c’è di meglio. I nazionalisti si lagnano delle solidarietà pesanti col Fascismo: «Soprattutto non è lecito ad alcuno dimenticare che il nazionalismo ha sempre assunto, in Parlamento o fuori, senza esitazioni e senza calcoli dei suoi particolari vantaggi e svantaggi, tutte le piú pesanti solidarietà col Fascismo, quando i comuni avversari piú si accanivano contro di essi». Questa proprio non la mando giú. C’è chi ride e chi si sdegna. Ma forse è meglio non farne conto. Nel tono dell’ Idea Nazionale c’è un’ombra di suocerismo: la stizza di essere un esercito di rispettabili capi senza soldati: «Certo il Fascismo ha avuto uno sviluppo numerico piú rapido del Nazionalismo, ma l’orgoglio che nascesse da una siffatta precocità potrebbe essere causa di molti errori. Il Nazionalismo non desidera i facili progressi. Le sue acquisizioni sono state piú lente, ma piú sicure. E ciò lo preserva da tutte le ubriacature. Detto ciò, auguriamo al Fascismo di non ripetere gli errori commessi dal socialismo nel 1919». Tutta questa stizza per il passaggio dei fascisti all’opposizione! Che destra e non destra! La partita si giuoca oggi fuori del Parlamento. Non sempre una intelligenza orgogliosa vale un uomo di fegato e di buona volontà. Ad ogni modo al diavolo le crisi! Torno in provincia, dove le questioni sono piú semplici e le vie piú spicce. 26 luglio - Ravenna. Oggi nel pomeriggio è giunta a Ferrara un’automobile da Ravenna con una lettera di Calvetti e di Muty con la quale mi si avvisava che la situazione di Ravenna era diventata improvvisamente gravissima: un fascista ucciso a colpi di randello dai sovversivi: complessivamente sette morti: la città in certi sobborghi completamente in mano dei sovversivi: sparatoria generale. Senza perdere un minuto di tempo, parto con due uomini fidati. I camerati di Ravenna mi avvisano che le strade sono piene di sovversivi: molti caporioni del sovversivismo ravennate si son buttati alla campagna e stanno sollevando i centri minori della Romagna. Nella stessa automobile che mi ha portato la lettera di Muty e di Calvetti, sono stati nascosti i moschetti per la difesa dalle possibili aggressioni. Filo diritto su Lugo. Rotta di sicurezza: a Lugo c’è un Fascio serio da oltre un anno. Qui trovo l’amico Bonomi che mi dà notizie catastrofiche su Ravenna. Bonomi tratta con uguale bravura l’arma di battaglia e la penna: è segretario politico di Lugo. Uomo di tutta fiducia. Ha sciolto il direttorio locale e mobilitato i fascisti. Approvo. Ma mi sconsiglia di proseguire in automobile, per la grande eccitazione degli animi. Impossibile seguire il suo suggerimento. Parto per Bagnacavallo, dove la piazza è ingombra di gente agglomerata e minacciosa. Tiriamo fuori i moschetti decisi a farci strada a qualunque costo e rispondere senza complimenti a qualunque manifestazione di ostilità. La nostra decisione induce la gente a far largo. Passiamo in mezzo alla folla a velocità fortissima, coi moschetti in pugno, in piedi sulla macchina. A quattro o cinque chilometri da Ravenna la strada è ancora bloccata da gruppi ostili. Sono operai socialisti. Debbo fermarmi. Mi domandano dove vado. Rispondo declinando a muso duro il mio nome, sempre col moschetto pronto. Non ribattono parola. Approfitto di quell’attimo per farmi largo. Ravenna. Subito alla sede del Fascio. Trovo i dirigenti fascisti preoccupati. Ma non c’è tempo da perdere. Mando a chiamare Baroncini e Grandi a Bologna. Ordino una rapida organizzazione del Comando e prendo la direzione del movimento. Tutti i fascisti della Romagna e del Ferrarese debbono essere mobilitati per questa sera. Si deve procedere alla immediata occupazione della città. Mi danno notizia delle ragioni della grave situazione. Come sempre motivi economici s’intrecciano a motivi politici. La questione è sorta per la pretesa che soltanto i barrocciai socialisti dovessero trasportare dopo la trebbiatura il raccolto. L’Agraria non poteva consentire, per non lasciare senza lavoro i barrocciai dei sindacati fascisti. Dopo vicende varie ieri sembrava raggiunto l’accordo. Chiamati ieri sera in prefettura, i rappresentanti degli agrari, facendo tacere ogni risentimento, avevano sottoscritto un verbale di accordo accettato dai rappresentanti della Camera del Lavoro: un socialista e un repubblicano. Ma l’Alleanza del Lavoro, organizzazione anonima, che agisce da lontano, ed è il concentramento della criminalità sovversiva, intendeva sfruttare la situazione. Stamani due o tremila comunisti, socialisti e repubblicani, si sono adunati in Borgo Saffi presso la porta di via Cavour, a sinistra della via Faentina, per entrare in città. Nuclei fascisti si sono opposti. È stato conteso un camion. Due bombe. Feriti. Altri feriti al circolo repubblicano per altre bombe. Forza pubblica sotto l’arcata dell’antica porta. Arringa di un commissario di pubblica sicurezza, Alessio. Risposta dei sovversivi: «Vogliamo comandare noi». Passaggio fortuito del facchino Giovanni Balestrazzi, vecchio fascista, erculeo, conosciutissimo. La folla gli è addosso. È massacrato sotto i colpi di randello. Linciaggio. Gli viene scoperchiato il cranio. Dieci carabinieri tentano intervenire. La folla addosso ai carabinieri. Questi si difendono facendo uso delle armi. Spari dalle finestre e dai vicoli. Reparti del 28° Fanteria, col capitano Meloni, e di guardie regie, col tenente De Stefano. Autoblindata. Borgo Saffi è sgombrato: sette morti: due soli identificati, il nostro Balestrazzi e un repubblicano, ragioniere Dino Silvestroni. Oltre 30 feriti di fucile, rivoltella e schegge di bombe. Alle 14 nuovo conflitto tra repubblicani in dissidio. Colpi di rivoltella. Nuovi feriti. I fascisti si mobilitano e lanciano il seguente manifesto: «Il tranello perpetrato contro di noi mediante l’accordo firmato in prefettura e la barbarica uccisione di uno dei nostri operai, colpito da bastone, ci impongono le piú severe misure. Diffidiamo quindi tutti i capi socialisti, comunisti e repubblicani ad abbandonare la città entro 24 ore. Tutti i fascisti sono tenuti a eseguire il presente ordine. « Il Comitato Fascista d’Azione». Errore, errore! Ai capi avversari il bando è sembrato manna: sono tutti fuggiti, lieti dell’occasione propizia. Sarebbe stato meglio averli vicini e sottomano! Prendo contatto col direttore del Consorzio repubblicano delle cooperative, Bondi, poco amato dal suo partito perché amico nostro. Gli chiedo perentoriamente che i repubblicani di Ravenna, che hanno sempre avuto rapporti amichevoli coi fascisti, sconfessino l’azione di quei repubblicani che hanno preso parte al massacro di Balestrazzi e dichiarino di condannare esplicitamente la criminalità di tutti i sovversivi dell’Alleanza del Lavoro. Tergiversazioni di Bondi e dei repubblicani meglio intenzionati. Probabilmente essi vorrebbero deplorare gli incidenti di stamane e le loro tragiche conseguenze. Ma sono legati all’Alleanza del Lavoro da vincoli stretti a Roma e a Milano. Il sindaco di Ravenna, Buzzi, è assente. Escono manifesti equivoci: il primo del Municipio, firmato dall’assessore anziano, in cui si condannano in generale le violenze da qualunque parte vengano, mettendo nel mazzo i fascisti insieme con i comunisti. Altre dichiarazioni hanno lo stesso tono. Bisogna costringere i repubblicani a chiarire il loro atteggiamento. Dico a Bondi: «Non volete uscire dall’equivoco? Ebbene io ve l’imporrò con la forza ». Questa sera hanno incominciato a giungere a Ravenna le squadre fasciste mobilitate in provincia di Ferrara, nonché le squadre del Bolognese. Procediamo alla requisizione forzata delle scuole, per alloggiare le molte migliaia che continueranno a giungere durante la notte. Intransigentissimi con la disciplina. Questa è la mia maggiore preoccupazione. Ordini severi. Tra i bravi fascisti di Ravenna, infaticabile e coraggiosissimo Muty. A pianterreno, bivacco dei capi, che provvedono agli accantonamenti e al vettovagliamento delle squadre. Porta-ordini. Staffette. Arrivo di bombe e di moschetti. Scene del tempo di guerra. Episodi strani e incontri imprevisti. Trovo in questa sala, giunto da non so dove, l’on. Pietro Sitta, come sempre serafico e desideroso di metter pace. Mi dice che è venuto apposta. Lo ringrazio. Le sue parole hanno l’accento della bontà, ma qui viviamo in una gabbia di belve. Occorre difendersi per non essere trucidati come è accaduto al povero Balestrazzi. La Romagna passa uno dei suoi periodi tipici di esasperazione. La gente vede rosso. È stato proclamato in tutta la regione dalla Alleanza del Lavoro lo sciopero generale. Arrivano notizie allarmanti da molti centri della provincia. La notte passa in veglia continua. 27 luglio - Ravenna. Abbiamo rapito prima dell’alba la salma del povero Balestrazzi che si trovava all’ospedale, e che ci era stata negata dall’Autorità. Ho il mio piano. Il nostro disgraziato ed eroico camerata servirà la causa fascista anche dopo morto. Il cadavere è stato collocato alla casa del Fascio. Vado dal prefetto e gli dico che i funerali si svolgeranno oggi a nostra cura, nel modo e coi riti nostri. Ma non garantisco affatto che incidenti gravi non si producano, se il prefetto non predispone che un duplice cordone di carabinieri, di guardie regie e di truppa, protegga ininterrottamente il grande corteo che si svolgerà dalla sede del Fascio, attraversando tutta la città, fino al cimitero. Il prefetto sembra stupito di una richiesta di aiuto di forza pubblica da parte mia. Ma io replico che ho il senso della responsabilità e tendo a evitare un piú grave spargimento di sangue. Allora il prefetto predispone che la totalità della forza armata, ad eccezione di qualche piccola e sparuta pattuglia, sia dislocata lungo le strade del corteo. È quanto io desideravo. Lo saluto e corro al Fascio per organizzare il colpo di sorpresa. Il funerale è predisposto per le ore 17. La mia manovra tattica è riuscita in pieno. Non appena il corteo, in testa al quale marcio io stesso, ha compiuto due o trecento metri fra le due ali di truppa che il prefetto ci ha concesso, le nostre squadre piombano rapidamente, dopo una corsa veloce di pochi minuti, sulla Casa del Popolo dei repubblicani. L’azione fulminea non ha trovato resistenza perché la Casa era stata quasi del tutto sguarnita dai carabinieri e dalle guardie regie che ieri la difendevano e che sono oggi impegnati al funerale. Fatta irruzione nell’interno della Casa del Popolo, i fascisti si barricano nella fortezza repubblicana. I pochi repubblicani presenti non hanno fatto che scavalcare le finestre e darsela a gambe. I fascisti hanno messo subito, innanzi al portone d’accesso sulla stessa via Paolo Costa, alcuni cavalli di frisia, preparati nella notte, hanno sbarrato il pianterreno con barricate all’interno e hanno messo sacchetti di sabbia alle finestre. Il tutto in un baleno. Sull’alto della Casa è stato issato il tricolore. Aspettano la reazione del prefetto che deve finalmente aver capito di essere stato giuocato. Poco dopo infatti sono giunti di corsa nuclei di forza pubblica: agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie regie, poi truppa e autoblindate. Ciò è valso soltanto a impedire che altri fascisti entrassero nell’edificio, il che avrebbe potuto essere pericoloso sia per la disciplina che dentro vi deve regnare sia per il vettovagliamento degli assediati. Abbiamo provveduto a rifornire i cento occupanti da una casa vicina. Ora la Casa del Popolo repubblicana ci servirà di ostaggio. Essa rappresenta la ricchezza del Partito dominante. Dentro sono riuniti rilevanti contingenti di merci delle cooperative repubblicane. O i repubblicani si staccano dall’Alleanza del Lavoro, oppure continuano a mantenersi nostri avversari. Nel primo caso restituiremo il palazzo senza avere toccato nulla di quanto vi è contenuto, perché ogni devastazione è stata proibita; nel secondo caso daremo fuoco, senza misericordia, al palazzo stesso. Ho comunicato questo ultimatum a Bondi che sta sui carboni accesi dall’angoscia. Le trattative sono condotte da Baroncini. Bondi ha costituito una nuova Camera del Lavoro invitando i repubblicani a cessare subito lo sciopero. Il suo manifesto è firmato anche da Ancarani, Gennari, Casadio e Bissi. La fuga degli antichi capi dovrebbe favorire la tendenza filofascista di Bondi. Non abbiamo però ancora l’esplicita sconfessione dell’Alleanza del Lavoro. Invece continuano a giungere notizie gravi dalla provincia. Oggi è stato ferito a Cesena il nostro camerata prof. Francesco Meriano, che si recava alla stazione insieme con l’avv. Ricci segretario del Fascio. Uno dei piú vecchi fascisti bolognesi, Clearco Montanari, è morto per un colpo d’arma da fuoco, mentre passava per Cesenatico sulla macchina stessa di Arpinati. Certamente l’aggressore mirava ad Arpinati che pilotava l’automobile, ma per fortuna Arpinati è rimasto incolume. Erano diretti a Ravenna. L’assassinio è avvenuto sulla piazza stessa del paese. Per rappresaglia, prepariamo per la notte l’assalto al palazzo delle cooperative socialiste di Nullo Baldini. 28 luglio - Ravenna. Questa notte le squadre hanno proceduto alla distruzione dei vasti locali della Confederazione provinciale delle Cooperative socialiste. Non vi era altra risposta da dare all’attentato compiuto ieri contro Meriano e all’assassinio di Clearco Montanari. Come al solito, l’azione fascista è giunta di sorpresa. Il vecchio palazzo, che fu sede dell’Hôtel Byron ed era la roccaforte delle leghe rosse, è completamente distrutto. I fascisti non procedono a operazioni di questo genere se non per motivi di assoluta necessità politica. Purtroppo la lotta civile non ha mezzi termini. Noi giochiamo la vita tutti i giorni. Nessun interesse personale ci spinge. Il fine supremo è la salvezza del nostro Paese. Abbiamo compiuto quest’impresa con lo stesso spirito con cui si distruggevano in guerra i depositi del nemico. L’incendio del grande edificio proiettava sinistri bagliori nella notte. Tutta la città ne era illuminata. Dobbiamo oltre a tutto dare agli avversari il senso del terrore. Non si uccidono impunemente i fascisti. Ho incontrato l’on. Nullo Baldini che al momento dell’incendio era nel palazzo insieme col socialista Caletti. Dietro mio ordine Baldini fu allontanato dai fascisti senza che alcuno gli dicesse nemmeno una parola ingiuriosa. Quando ho visto uscire l’organizzatore socialista con le mani nei capelli e i segni della disperazione sul viso, ho compreso tutta la sua tragedia. Andavano in cenere in quel momento, col palazzo delle cooperative di Ravenna, il sogno e le fatiche della sua vita. Qui era tutta o per lo meno gran parte della forza di cui i socialisti godono nella regione. Organizzazione mastodontica, ma retta con criteri sostanzialmente onesti. Soltanto che non era un ente economico, bensí politico. Non so concepire la lotta senza il rispetto dell’avversario. L’attacco è stato abilmente simulato con spari di rivoltella e finti conflitti nelle adiacenze. Le guardie regie che lo presidiavano, sono accorse nelle strade vicine come allodole allo specchio, e, quando sono ritornate, era troppo tardi. La mancanza d’acqua, particolare alla città di Ravenna che non possiede acquedotto, ha favorito la rapida conquista delle fiamme. Il materiale enorme che vi era raccolto ha reso l’incendio inestinguibile. Nella città, dove noi sentiamo ancora serpeggiare la rivolta sovversiva, non cessa la battaglia delle squadre. Piccole azioni locali. Sgombero e sorveglianza dei sobborghi. Fascisti volonterosi non mancano. Continuano ad affluire squadre dalle provincie vicine. Ne abbiamo alloggiate molte alla Palestra «Forti per essere liberi». La città sembra un accampamento. È stato occupato lo spaccio delle cooperative socialiste in sobborgo Fratti e il circolo socialista «Aurora» in Borgo Saffi. Molti feriti. I morti del 26 sono diventati 9. L’agitazione tracotante dei sovversivi si fa minacciosa in provincia perché essa è stata vuotata di fascisti, che son tutti convenuti a Ravenna, e rigurgita di fuorusciti rossi fuggiaschi dalla città. Ho preso i gruppi piú arditi dei fascisti d’azione e li ho inviati con ordini precisi in alcuni paesi. Tra l’altro è giunta notizia che i comunisti di Cesenatico hanno pubblicato un bando con l’ordine perentorio ai fascisti di allontanarsi dalla città e dalla spiaggia. Ricevo un telegramma da Michelino Bianchi che mi ordina di attendere l’arrivo di Grandi prima di continuare nell’azione contro i repubblicani. Questo dispaccio mi fa uscire dai gangheri. Come possiamo sospendere all’improvviso il movimento delle squadre mentre ci sono ancora dei morti per le strade? Temo che a Roma Michelino non abbia completo il senso della situazione. È difficile valutare una battaglia di piazza stando lontani. Vogliono far l’accordo con Comandini e Macrelli? Facciano pure. Ma non prima di averli costretti a riconoscere la nuova situazione. Il fine di Michelino si identifica col mio: fare una sostanziale differenza di trattamento ai repubblicani rispetto agli altri gruppi sovversivi. I repubblicani nel ’21 ci guardavano con simpatia ed hanno dato tremila voti di preferenza a Dino Grandi. Lo so. Del resto mi auguro di cuore che a un accordo si arrivi. Ma questi ordini rassomigliano un poco a quelli che i Comandanti di Corpo d’Armata inviavano agli ufficiali in linea per insegnare loro il modo piú efficace dell’attacco e della difesa. La trincea, realtà e insegnamento sommo. Sta a vedere che dopo la battaglia dura di questi giorni e la assunzione di grosse responsabilità, finirò per avere discussioni e noie col Partito! Stamani ho trovato modo di guardarmi in uno specchio. Sono ridotto piuttosto male. Eppure non credevo di avere questa resistenza. Il prefetto è assente e sbarrato in casa. Impossibile sapere che cosa pensa di fare. Fino ad ora ce ne eravamo infischiati, ma non si può fare a meno di lui per le trattative di accordo coi repubblicani che Baroncini ha preparato con Bondi e con Buzzi. Ho pensato quindi di violare la consegna. Il prefetto Siracusa ha circondato il palazzo di plotoni di fanteria. Mi sono accorto però che la compagnia mitraglieri che presidia il palazzo del prefetto è comandata da Bonomi, fratello del segretario del Fascio di Lugo. Ho potuto arrivare del tutto inaspettato negli uffici della prefettura. Sono giunti oggi anche Grandi e Teruzzi. È preparata la riunione con i repubblicani, ma io e Baroncini non vi partecipiamo. Dobbiamo compiere un giro di ispezione in provincia e mettere a posto le cose a Cesenatico, per l’assassinio di Montanari e per il bando. Partiamo con un camion di squadristi e risolviamo le questioni pendenti anche a Cervia. Al nostro ritorno a sera inoltrata, il patto è stato firmato e la conclusione è stata ratificata in Municipio. Ecco il testo del patto: «Oggi 28 luglio 1922, nella residenza municipale di Ravenna sono convenuti a fine di procedere a un esame della situazione creata in Romagna dai recenti dolorosi avvenimenti i signori Buzzi rag. Fortunato, Sindaco di Ravenna, on. Giuseppe Gaudenzi, Sindaco di Forlí, on. avv. Ubaldo Comandini, on. avv. Gino Macrelli, avv. Vincenzo Masotti, prof. Oddone Fantini, rag. Taroni Mosè, Melandri Ennio, ing. Eugenio Baroncelli, Bondi Pietro, Calderoni Chiarissimo, in rappresentanza del Partito e delle organizzazioni economiche repubblicane, on. Dino Grandi, Teruzzi Attilio, rag. Celso Calvetti, dott. Giuseppe Frignani, dott. Vincenzo Naldi, in rappresentanza del Partito e dei sindacati fascisti; «fra gli intervenuti ha avuto luogo una lunga e vivace discussione, a conclusione della quale i convenuti hanno affermato il concetto che è sostanza della dottrina repubblicana e conforme ai principî di libertà e riconosciuto al Partito Fascista, il pieno diritto di svolgere la propria azione per la formazione dei suoi organismi politici e sindacali. «Alla fine della discussione i convenuti dichiarano cessato lo stato di ostilità che ha perturbato la vita della regione e che prolungandosi sarebbe cagione di nuovi lutti e riuscirebbe dannoso alle sorti supreme della Patria». L’accordo è una cosa importante, ma non mi nascondo che rimangono molti gravi dubbi sulla sua sincerità e sulla sua efficacia. I repubblicani di Ravenna sono, almeno in gran parte, in buona fede, ma il Partito è invischiato nell’Alleanza del Lavoro. È difficile, dopo quanto è avvenuto, che i rapporti tra fascisti e repubblicani ritornino normali come erano fino all’anno scorso. Qui le fazioni partigiane soffocano spesso ogni ideale. In ogni modo sono stato favorevole all’accordo e lo farò strettamente osservare. 30 luglio - Ravenna. Ieri mattina sono stati consegnati ai repubblicani, con una solenne cerimonia, i locali della Casa del popolo. Ho predisposto nell’atrio uno schieramento di fascisti armati, perfettamente allineati agli ordini dei loro ufficiali, per ricevere i repubblicani, che hanno delegate le loro avanguardie, in gran parte composte di filofascisti. Le avanguardie sono entrate con la musica in testa che suonava l’inno di Mameli. La consegna è stata rapida, dato anche che nulla era stato toccato all’interno del palazzo. Una certa cordialità. Quando i fascisti sono usciti salutando i repubblicani, la fanfara delle avanguardie ha suonato «Giovinezza». I repubblicani sono agli ordini di Romeo Piccinini, mutilato di guerra, e di Eugenio Pasini piú volte decorato. Gli avanguardisti repubblicani che sono subentrati alle squadre fasciste nella Casa del popolo sono di Carraie e di Santo Stefano. Indossavano le camicie rosse, loro divisa. Sul balcone centrale della Casa del popolo sventola il gagliardetto rosso delle avanguardie repubblicane insieme con la bandiera tricolore dei fascisti. La smobilitazione era già in atto allorché alle 9.30 sono stato avvisato che nel borgo San Rocco era stato ucciso un fascista ferrarese, Aldino Grossi, da Massafiscaglia, e che parecchi altri fascisti di Ferrara e di Bologna erano stati feriti. Mi precipito in Borgo San Rocco, ove arrivano squadre fasciste da ogni parte della città. La voce sembra sul principio incredibile perché ormai è stato firmato il patto di pacificazione; ma trovo purtroppo conferma. Aldino Grossi coi suoi camerati si era avventurato nel Borgo San Rocco. A persone che li avevano sconsigliati avevano risposto: «Non c’è nulla da temere, la pace è fatta». Altri giovani si erano uniti a loro. Giunti presso il mulino sono stati investiti da colpi di rivoltella. Gli aggrediti si lanciano contro gli ignoti sparatori, ma questi fuggono. Intanto, mentre ritornano sui propri passi presso la stazione del tram, in località detta delle «Case nuove», li investe un’altra raffica di colpi di rivoltella. Questa volta sono quasi tutti colpiti. Aldino Grossi giunge all’ospedale cadavere: gli altri, tra cui Arconovaldo Bonaccorsi, feriti piú o meno gravemente. Quando arrivo, trovo tutti gli accessi al Borgo sbarrati con truppe a piedi e a cavallo e due autoblindate. Mentre alcune squadre distruggono il circolo comunista e quello anarchico del sobborgo Fratti in località Capannetti, altre irrompono nel sobborgo socialista Garibaldi. Qui si impegna battaglia piú forte. Piombano dalle finestre oggetti di ogni genere e persiane. L’impeto dei fascisti travolge ogni resistenza. Altri circoli incendiati per tutta la città. Ma queste azioni locali non possono stroncare l’attività comunista che si è fatta piú minacciosa proprio in seguito e a causa della pacificazione coi repubblicani. Decido allora una piú vasta azione. Vado dal questore mentre Dino Grandi trattiene i fascisti che intanto si sono radunati a migliaia nei pressi del borgo. Gli annuncio che avrei bruciato e distrutto tutte le case dei socialisti di Ravenna se dentro mezz’ora non mi dava in consegna i mezzi necessari per portare i fascisti altrove. È un momento drammatico. Esigo un’intera colonna di camions. I funzionari della Questura perdono la testa, ma dopo mezz’ora ci indicano dove possiamo trovare i camions già riforniti di benzina. Di questi alcuni appartengono alla Questura stessa. Io li avevo domandati col pretesto di portare lontano dalla città i fascisti esasperati. In realtà organizzavo la «colonna di fuoco» (come fu definita dagli avversari) per estendere la rappresaglia su tutta la provincia. Prendo posto io stesso, insieme con Baroncini, con Caretti di Ferrara e col giovane Rambelli di Ravenna, in una automobile che apre la lunga colonna di camions, e si parte. Questa marcia iniziata alle undici di ieri mattina 29, è terminata stamani 30. Quasi 24 ore continuate di viaggio, durante il quale nessuno ha riposato un momento né toccato cibo. Siamo passati da Rimini, Sant’Arcangelo, Savignano, Cesena, Bertinoro, per tutti i centri e le ville tra la provincia di Forlí e la provincia di Ravenna, distruggendo e incendiando tutte le case rosse, sedi di organizzazioni socialiste e comuniste. È stata una notte terribile. Il nostro passaggio era segnato da alte colonne di fuoco e fumo. Tutta la pianura di Romagna fino ai colli è stata sottoposta alla esasperata rappresaglia dei fascisti, decisi a finirla per sempre col terrore rosso. Episodi innumerevoli. Scontri con la teppaglia bolscevica, in aperta resistenza, nessuno. I capi sono tutti fuggiaschi. Le leghe, i circoli socialisti, le cooperative, semideserti. Invece abbiamo spesso dovuto vincere la resistenza della forza armata. A Cesena la strada provinciale è sbarrata da una autoblindata al comando di un ufficiale della Regia Guardia che minaccia di aprire il fuoco. Gli ho detto: «Sparate se avete coraggio». L’autoblindata era troppo piccola per bloccare completamente il passaggio. Ho fatto strada io stesso alla colonna superando l’autoblindata seguito da tutti i camions. Non è stato sparato un colpo. Ho visitato all’ospedale di Cesena Meriano che migliora sensibilmente. La pallottola l’ha ferito al ginocchio. C’è il pericolo che zoppichi per tutta la vita. Era felice della visita. Siamo tornati a Ravenna all’alba. Ho fatto partire tutti. Oggi prenderò la salma del nostro povero morto, la caricherò su un camion e la porterò a Ferrara. 1° agosto - Ferrara. Partiti stamane da Ravenna tutti i fascisti mobilitati, i ferraresi hanno preso la direzione di Massafiscaglia dove seppelliremo il nostro morto Aldino Grossi. Corteo interminabile di ciclisti. Afa. Polvere. Scontiamo la fatica dei giorni scorsi. Ma sono contento delle squadre ferraresi. Non un atto di indisciplina. Ciascuno resiste al di là delle sue forze. Sul ponte della Bastía incontriamo concittadini e camerati che ci sono venuti incontro. Le file s’ingrossano. Occupiamo qualche chilometro di strada. I paesi che attraversiamo rendono gli onori. A Massafiscaglia rito semplice nel silenzio religioso. Ho salutato la salma di questo povero ragazzo davanti alla chiesa. Molta commozione. Cosí si muore tra i fascisti. Non ancora diciottenne, Aldino Grossi combatteva per l’Idea. Al di là di ogni personale interesse, in una città che non conosceva. Devo correre a Ferrara. È scoppiato oggi lo sciopero generale detto «legalitario» in tutta Italia. Attraversando queste regioni nessuno se ne è accorto perché il lavoro procede senza turbamenti. Forse l’Alleanza del Lavoro farà breccia altrove. Nelle nostre regioni lo sciopero è una parola senza senso. 2 agosto - Ferrara. La Direzione del Partito ha messo un ultimatum alla cessazione dello sciopero generale. Se dentro 48 ore il Governo non è capace di stroncarlo, i fascisti occuperanno i capoluoghi di provincia e si sostituiranno alle autorità dello Stato. È giunta l’ora della insurrezione generale? La necessità di dare all’Italia un Governo Fascista è sentita dovunque. Perfino alcuni avversari l’invocano come una garanzia di pace. Si sente che le leggi attuali non sono sufficienti a tutelare la Nazione dal movimento di autorovina che la conduce all’abisso. Piú che le leggi contano gli uomini. Tutte le vecchie classi dirigenti sono esautorate. I giornali paragonano il fenomeno delle continue crisi ministeriali all’infermo di Dante che crede di trovare sollievo voltandosi di continuo nel suo letto di tortura. Il Partito ha però smentito qualsiasi notizia relativa a un movimento insurrezionale di tutte le squadre d’azione d’Italia. Evidentemente il momento non è ancora venuto. Ma non può tardare. Ci torturiamo nel dubbio e nell’attesa. Istintivamente i fascisti si allenano per la giornata decisiva. Queste ore di sciopero generale sono propizie agli esperimenti. I servizi pubblici funzionano oggi dovunque per virtú dei fascisti che si sono sostituiti ai ferrovieri, ai tramvieri, ecc. In ogni caso l’Alleanza del Lavoro riuscirà sconfitta. Ma non sarà merito della autorità statale. Le zone neutre della popolazione si abituano al governo fascista. Dobbiamo commettere delle illegalità, in forma quasi sistematica, per fare rispettare la legalità. Paradosso. Si dice che gli estremisti abbiano voluto con questo sciopero forzare la mano agli elementi piú temperati del partito socialista. Infatti Turati si dà pose da eretico. Sconfessa gli scioperanti. Ma non passa dalle parole ai fatti. Dà con una mano, e con l’altra ripiglia. Per noi gli uni valgono gli altri. Mussolini ha detto recentemente alla Camera che il Fascismo assiste con vera soddisfazione al moltiplicarsi delle tendenze in seno al partito socialista che si fraziona come un verme tagliato in pezzi. Non cascheremo nel tranello collaborazionista. 3 agosto - Ferrara. Lo sciopero è fallito. Curiose le spiegazioni dei sovversivi. Essi avrebbero organizzato il tentativo di sedizione rivoluzionaria, per indurre le classi borghesi alla formazione di un Governo forte: forte naturalmente contro i fascisti. Infatti si è trascinata a Roma fino a stamani l’ennesima crisi ministeriale. C’è chi, tra i rossi, canta vittoria perché è salito al Ministero degli Interni l’ex prefetto Taddei, a noi ben noto, a cui si vogliono attribuire tendenze antifasciste. Tutto può essere. Certi funzionari per rifarsi una verginità mutano colore come le salamandre. Ma la cosa non ha importanza. Qualsiasi tendenza ministeriale deve fare i conti con le nostre squadre. Quelle ferraresi sono state mobilitate con le armi al piede per tre giorni, pronte a scattare. Esse non sanno nulla di tendenze e di sfumature ministeriali. Destri o sinistri, i governi di Roma non godono la loro fiducia. Vogliono fare la rivoluzione. 3 agosto (ore 14) - Ferrara. La Direzione del Partito mi avverte che la situazione è grave a Parma e mi invita a recarmi in quella provincia per assumere il comando della città. Ricevo anche un disperato appello di Terzaghi. Pare che i comunisti siano padroni di interi quartieri, con barricate e conflitti aperti con la forza pubblica. Anche ad Ancona lo sciopero non sarebbe cessato, anzi si inasprirebbe. Ma la situazione piú grave è a Parma. Parto con Caretti e Albini. 3-4 agosto (notte) - Parma. Viaggio movimentato. A Reggio Emilia, città in movimento, forza pubblica, assembramenti di fascisti. Giungo al ponte sul Taro. Impossibile passare. Reparti di guardie regie bloccano il ponte. Non vale insistere. Debbo ritornare a Reggio Emilia. Al Fascio mi avvertono che il questore è una persona con cui si può ragionare. Vado. Gli dico che, quale membro della Direzione del Partito, debbo recarmi a Parma per una ispezione, con l’ordine di condurre i fascisti a uno spirito di pace. Mi rilascia questo biglietto per il reparto di guardie regie sul ponte del Taro: «Il dott. cav. uff. Umberto Molossi «prega il capitano Occelli ed il dottor Massa nonché gli agenti della forza pubblica a cui il latore dott. Balbo possa eventualmente presentarsi, di lasciarlo transitare. «Il dott. Balbo, membro della Direzione del Partito Fascista, si reca a Parma, in automobile, con tre compagni di scorta per un’inchiesta sui fatti svoltisi. Molossi Questore di Reggio Ma forse questo biglietto da visita del questore non basta: può essere ritenuto apocrifo. Altra lunga conversazione col capitano che comanda le guardie regie di Reggio. Discorsi intonati al piú roseo pacifismo: senza di me i fascisti non smobiliterebbero, i conflitti sarebbero inevitabili, il Partito non avrebbe esatta notizia degli avvenimenti. Anche questa volta persuado il mio interlocutore. Biglietto del Capitano: Da Reggio E., ore 2,30 del 4 agosto 1922 . «Caro Occelli, accompagno anche io il biglietto del Questore, per il lasciapassare del dottor Balbo, della Direzione del Partito Fascista, il quale nel timore che non si prestasse fiducia al biglietto rilasciatogli mi ha pregato di farti vedere la mia scrittura. «Tanti auguri. Tuo Cap. Ferruccio Mari» Ingresso in città alle prime luci dell’alba. Movimento di pattuglie. Spari. La popolazione civile ha vegliato insonne: quasi tutte le finestre sono illuminate. Sono all’Hôtel Croce Bianca. Convoco fra tre ore il Direttorio del Fascio di Parma e le rappresentanze di tutte le forze fasciste presenti in città. Mi concedo questo breve momento di riposo per essere pronto tra poco. Penso che nei giorni che seguono non resterà tempo per dormire. Continuano gli spari: ta-pum, come in guerra. 4 agosto - Parma. L’albergo trasformato in quartier generale. I dirigenti di Parma mi danno l’antefatto. I fascisti locali pochi: la città è rimasta quasi impermeabile al Fascismo: invece nella provincia la conquista fascista è quasi completa. Lo sciopero non poté essere impedito in città, per la debolezza delle nostre forze. Fu, piú o meno, generale. Da tre giorni gli esercizi pubblici, i servizi comunali e perfino quelli statali sono fermi. I negozi chiusi. Anche la stazione ferroviaria in mano dei sovversivi. Per la mobilitazione ordinata dal Partito sono affluite squadre dalle provincie vicine: reparti di Mantova, di Cremona, di Piacenza. Ma insufficienti a dominare la situazione. Parma divisa secondo i vecchi confini dalle fazioni in lotta: l’oltretorrente completamente in mano dei rossi. La popolazione asserragliata nelle case trasformate in fortezze, con abbondanza d’armi e di tiratori scelti sui tetti: le strade bloccate da barricate col materiale delle scuole e delle chiese. Non solo nessuno può entrare nell’oltretorrente, che sta al comando dell’on. Picelli, ma dall’oltretorrente si spara sopra le strade e le piazze della città. Particolarmente preso di mira corso Garibaldi, passaggio obbligato. Alcuni punti della città diventati pericolosi. Questa resistenza sovversiva ha il suo fulcro nei comunisti, ma vi partecipano tutti i partiti antifascisti. Forze avversarie . - Hanno solidarizzato con i rivoltosi: la Camera del lavoro sindacalista, con Alceste De Ambris alla testa. Tutti gli antichi dissidi sono stati superati per l’occasione. Dimenticato il periodo interventista, il nome e l’opera di Corridoni. I sindacalisti di De Ambris hanno aizzato la popolazione per mezzo del loro settimanale, il piú violento di tono contro di noi. La Camera del lavoro socialista con un settimanale di propaganda che preparava da lungo tempo l’azione presente e ha raccolto allo scopo sottoscrizioni pubbliche. Molti popolari. Partecipano alla resistenza sovversiva persino alcuni preti in sottana che hanno offerto viveri e banchi di chiesa per gli sbarramenti. I giovani popolari sono capeggiati da un noto avvocato della città. Frazioni di partiti borghesi, legati alla democrazia nittiana, che fanno capo al giornale locale Il Piccolo, velenosissimo contro Mussolini e contro di noi. Alcuni di questi sono pseudorepubbl-cani. Al Piccolo fa capo anche la pattuglia riformista. Dislocazione degli avversari . - Tutta la zona dell’oltretorrente (in città vecchia), nonché i quartieri del Naviglio, di Borgotorto, di via Venti Settembre, via Felice Cavallotti (quartiere della Trinità in Parma nuova). Nei borghi dell’oltretorrente, Bernabei, Cocconi, Imbriani, dei Graspani, Corridoni, Carra, nonché nella zona della Trinità, le trincee, scavate ed erette con tutta la tecnica della guerra. Sono protette da reticolati e cavalli di frisia. Partecipano alle azioni le donne e i ragazzi. Ora per ora le trincee vengono approfondite e perfezionate. Servizio di sentinella. Operai che si dànno il turno. Disciplina militare. Picelli ha il suo quartier generale al centro dell’oltretorrente. Arditi del popolo militarizzati. Stato maggiore. Disciplina di guerra. Armi e vettovagliamento . - I sovversivi possiedono rivoltelle, moschetti e alcune mitragliatrici. Si calcola siano dotati di un grande numero di munizioni perché non risparmiano i colpi. Si spara di giorno e di notte. Molti operai sono in divisa di ex-soldati col relativo elmetto. I ragazzi sono in gran parte adibiti a spari a tradimento che colpiscono i fascisti persino nella piazza maggiore della città. Mentre i difensori sono di guardia alle trincee, le donne, mobilitate anch’esse, preparano il rancio. Sono coadiuvate da gruppi di cucinieri. Le popolane portano alle cucine antifasciste pane, vino, frutta, lardo, patate. Il rancio viene distribuito due volte al giorno. L’ora del rancio è fissata con uno squillo di tromba. Altri squilli regolano l’ora della ritirata e l’ora della sveglia, nonché gli allarmi. Fini che si propone la rivolta . - È incominciata con la dichiarazione dello sciopero generale. All’ultimatum fascista delle 48 ore, i sovversivi hanno risposto intensificando la resistenza. Affermano che non vogliono cedere alla imposizione fascista. Di fatto, è una prova generale di resistenza armata alla mobilitazione delle Camicie nere, che dovrebbe preludere alla costituzione del famoso esercito proletario. Qui, infatti, in Parma, sono convenuti i capi piú in vista del sovversivismo terrorista, messi al bando dalle città fasciste o ricercati dalle autorità di pubblica sicurezza per delitti commessi. Se Picelli dovesse vincere, i sovversivi di tutta Italia rialzerebbero la testa. Sarebbe dimostrato che armando e organizzando le squadre rosse si neutralizza ogni offensiva fascista. L’esempio potrebbe essere ripetuto in molte città italiane. Forse avrebbe inizio tra non molto una lotta sanguinosa e senza quartiere. Contegno delle autorità . - Il prefetto di Parma, comm. Fusco, è un uomo nullo. Vero funzionario di Facta. Non ha saputo impedire la lunga preparazione del movimento sovversivo, la concentrazione di armi, di viveri, di uomini nell’oltretorrente. Le trincee, i reticolati, i cavalli di frisia, gli asserragliamenti nei borghi, sono stati fatti alla presenza dei carabinieri e delle guardie regie, che avevano ricevuto dal prefetto l’ordine tassativo di non opporsi per evitare conflitti. Il prefetto ha contribuito alla saldezza delle apprestazioni di guerra avversarie con ordini strambi, quali per esempio: divieto ad estranei di entrare in città; divieto di far circolare automobili e camions e biciclette; divieto di assembramenti nelle vie e nelle piazze non occupate dai sovversivi. Cosí ha impedito ogni difesa fascista. Ha isolato i pochi squadristi di Parma. Ha lasciato i sovversivi padroni assoluti della città. Hanno reagito, dimostrandogli l’assurdità del suo atteggiamento, il fiduciario della Direzione del Partito, Giovanni Botti, e l’on. Terzaghi. Il prefetto ha dichiarato che il solo mezzo per mantenere l’ordine era di non creare conflitti coi sovversivi: ha aggiunto che si rimetteva all’educazione dei cittadini. Come atto di energia, ha promesso di scrivere una lettera al sindaco di Parma, pregandolo di fare ricostruire il selciato smosso dai sovversivi: come si trattasse di un lavoro di pavimentazione stradale. Contrasta con l’abulía del prefetto la ferma volontà del generale Lodomez che comanda la truppa. Ma deve dipendere dal prefetto. La situazione è rimasta stazionaria per tre giorni fino a questo momento. 4 agosto (ore 14) - Parma. Ho mobilitato da stamani tutte le squadre delle provincie vicine e precisamente quelle di Piacenza, Cremona, Mantova, Reggio Emilia, Modena, Bologna e Ferrara. Sono convinto che la partita che si sta per giocare supera come importanza tutte le precedenti. Per la prima volta il Fascismo si trova di fronte a un nemico agguerrito e organizzato, armato ed equipaggiato e deciso a resistere a oltranza. Procedo quindi con ordine militare. Prima di tutto ho costituito il Comando e lo stato maggiore, ho ben diviso i reparti, vagliati i comandanti e stabiliti i collegamenti. Debbo essere informato ora per ora delle novità. L’organizzazione degli accantonamenti, dei viveri e delle armi rigorosamente controllata. I reparti, distribuiti secondo un piano determinato nei punti dove l’azione o la difesa si svolgono. Disciplina rigorosissima che giunge sino a incarcerare i fascisti, se gli ordini non sono eseguiti scrupolosamente. Ora che il Comando è costituito, la città viene metodicamente e ordinatamente occupata dalle squadre armate di fucile. Molti fascisti sono alloggiati sotto la tettoia della ferrovia, su mucchi di paglia, che sono stati requisiti. Anche il buffet della stazione è ridotto a un accantonamento. Gli altri locali sono occupati dai nostri Comandi. Tutto il piazzale della stazione è gremito di fascisti. Le biciclette sono riunite in depositi predisposti presso il muro di una fabbrica nelle prossimità della stazione. Presidiati la ferrovia, le poste, i telegrafi, le banche, i locali pubblici. I treni non si possono piú fermare: possono transitare soltanto. Tutte le zone battute dalla fucileria dell’oltretorrente sono guardate dalle camicie nere. Le strade provinciali sono sotto il nostro controllo. I fascisti fermano e chiedono le carte di riconoscimento a chiunque voglia avvicinarsi alla città. Gli elementi sospetti vengono perquisiti dai servizi fascisti di ronda. Ho dato l’ordine che sia esposto alle finestre il tricolore. Non vogliamo aiuti di carabinieri e di guardie regie. Soltanto sui ponti del torrente Parma vigilano, al comando dei loro ufficiali, gruppi di cavalleggeri Novara. Impediscono che veniamo a contatto con l’oltretorrente. Si può dire che la battaglia continua senza tregua. Stamane in via D’Azeglio, traversa della via Emilia, i sovversivi hanno tentato di costruire una barricata con sassi e masserizie fra l’ospedale dei bambini e l’ospedale maggiore. Una nostra pattuglia è intervenuta e i comunisti sono fuggiti. Dovranno essere rimessi in circolazione i trams. Stamane una squadra di Camicie nere ha preso possesso della stazione dei trams in viale Mentana. È stata levata la bandiera rossa e inalberato il tricolore. Dal parapetto del viale un forte gruppo di sovversivi ha scaricato sui fascisti una raffica di fucileria. I fascisti hanno risposto con le rivoltelle. La battaglia è durata per quasi un’ora, con feriti da ambo le parti. Ma le Camicie nere sono rimaste padrone della situazione. Squadre in transito per via Garibaldi sono state prese d’infilata dal fuoco avversario. Fucilate dalle finestre e dalle porte di via Venti Settembre. Feriti e, pare, qualche morto. Le squadre lanciate di corsa per la strada hanno assalito sotto il grandinare dei colpi il Circolo dei ferrovieri in piazza Bòttego, devastandolo. Impedito un tentativo di sorpresa in viale Aldini. Ancora fucilate e qualche scoppio di bomba. È stata invasa e devastata la tipografia del Piccolo. Il giornaletto nittiano non potrà uscire per un pezzo: i suoi impianti sono distrutti. Presa d’assalto una barricata in corso Valorio: è rimasta in possesso dei fascisti la bandiera rossa. Alle 9,45 di stamane mi sono recato dal prefetto col mio stato maggiore. La visita ha avuto uno strano aspetto. Sono giunto alla prefettura scortato da una squadra di fascisti armati di moschetto al comando del dott. Moschini di Mantova: in tutto 100 militi. Moschini li ha schierati per due di fronte innanzi al palazzo e durante il colloquio ha tenuto gli uomini col moschetto imbracciato, pronti all’assalto della prefettura, se fossero nate sorprese. Le guardie regie e i carabinieri si sono ritirati sotto l’atrio della prefettura senza opporre alcuna resistenza, quantunque avessero a disposizione due mitragliatrici. Il prefetto si è fatto trovare circondato da una grande commissione di autorità politiche e militari: il suo capo di gabinetto, il questore, il generale Lodomez, il procuratore del Re e i rappresentanti delle amministrazioni comunale e provinciale di Parma. Ho fatto al prefetto, in termini duri, una rapida esposizione dello stato delle cose. Ha dovuto ammettere il trinceramento dei sovversivi e la quiescenza del Governo. Ho messo allora le mie condizioni: per le ore 12 di oggi la vita della città avrebbe dovuto riprendere il suo normale aspetto; se entro quel termine non fossero state demolite le barricate, tolti i reticolati, sequestrati i moschetti, le mitragliatrici, le bombe, i tubi di gelatina, le armi offensive dei sovversivi, i fascisti, in ottemperanza agli ordini della Direzione del Partito, si sarebbero sostituiti alle autorità dello Stato. Il prefetto, ritenuto breve questo termine, ha chiesto due ore di proroga. Col telefono stesso che era sul tavolo del prefetto, ho comunicato con Mussolini a Roma, mettendolo al corrente della situazione. È seguita una discussione serrata, durante la quale noi non abbiamo ceduto altro che per acconsentire due ore di proroga. È rimasto inteso che per le ore 14 le truppe sarebbero state impiegate per isolare il quartiere della Trinità e per entrare contemporaneamente in tutte le strade tenute dai sovversivi. All’occorrenza l’autorità militare avrebbe fatto uso dei cannoni e dei gas lagrimogeni. Con questa intesa sono uscito e ho lanciato l’ordine di sospensione delle ostilità fino alle 14. Per la stessa ora ho intimato a tutti i commercianti di riaprire i loro negozi, minacciando di farli devastare se fossero rimasti chiusi. Per nostro conto la sospensiva è stata osservata. Invece si è continuato a sparare dall’oltretorrente. Bersagliati particolarmente i fascisti e i carabinieri costretti a passare per via Garibaldi, che è presa d’infilata dalle vedette rosse sui tetti. La popolazione ha ripreso animo. Del resto ho notato come la curiosità vinca la paura anche nelle donne. Il temperamento del vecchio popolo di Parma è animoso. Spesso, quando in qualche punto accade una sparatoria, invece di fuggire, i cittadini accorrono incuriositi. Molti si prestano a far da guida alle nostre pattuglie, marciando imperterriti sotto i colpi di fucile degli avversari. Grande animazione e in complesso molta cordialità. 4 agosto (ore 23) - Parma. Il prefetto ha creduto di giuocarci. Alle 14 le truppe del generale Lodomez entravano nei quartieri occupati dai sovversivi con mitragliatrici e con due cannoni. L’apparato di forze era grande. Si riteneva accanita la resistenza degli avversari. Invece non è stato sparato un colpo di fucile. Gli operai stessi hanno aiutato i soldati a sgombrare le barricate e a disfare le trincee. Da tutte le viuzze dell’oltretorrente le masse sovversive accorrevano incontro ai soldati gridando «viva l’esercito proletario». Applausi senza fine agli ufficiali. Molti soldati abbracciati dalle donne che offrivano vino. Segni di vittoria in tutti i quartieri che fino a pochi momenti prima erano in stato di guerra. Le truppe, i carabinieri e le guardie regie non hanno sequestrato che tre o quattro moschetti. Delle mitragliatrici, delle bombe, dei tubi di gelatina, delle rivoltelle e dei moschetti di cui i sovversivi hanno fatto larghissimo uso in questi giorni, nessuna traccia. Sono rimasti in possesso di coloro che li impiegavano, con tutte le necessarie munizioni. In una piazzetta dell’oltretorrente è stata scodellata ai soldati una polenta di 15 chili. Non sono mancati le musiche e i balli popolari. Il mistero di questa manifestazione di giubilo e di solidarietà con l’Esercito è stato subito svelato. Il prefetto Fusco è sceso a patti con gli arditi rossi di Picelli. Ha promesso loro che non appena i reparti dell’Esercito fossero entrati nell’oltretorrente, tutti i fascisti convenuti a Parma sarebbero partiti. Per inviare questo straordinario messaggio si è servito del presidente della Deputazione provinciale, comm. Maestri, noto nittiano e notissimo antifascista. A sua volta il Maestri ha delegato Faraboni, organizzatore dei contadini rossi ed esasperato bolscevico. Gli emissari del prefetto sono stati ricevuti da Picelli in forma ufficiale. Si è presentata a Picelli la soluzione prefettizia come una clamorosa vittoria delle organizzazioni rosse, le quali non solo avevano l’aria di aver costretto i fascisti alla fuga, ma avevano indotto il Governo a venire a patti. Insomma era tutto un equivoco. Inoltre le dimostrazioni fatte all’Esercito suonavano oltraggio all’Esercito stesso, che si tendeva a far apparire come bolscevizzante. Lo stesso generale Lodomez è venuto da me per darmi notizia di quanto era avvenuto e ha dovuto convenire che la vittoria condizionata della autorità metteva in cattiva luce l’autorità politica, che confessava la propria debolezza e lasciava nell’imbarazzo l’autorità militare. Alle 18 mi sono quindi nuovamente recato dal prefetto con tutto il mio stato maggiore e l’ho trattato come si meritava. Con noi i sistemi giolittiani non attaccano. Abituati a tagliare i nodi gordiani con la spada, sapremo far uso della forza. L’ho lasciato dicendogli che non gli riconoscevo alcuna autorità e che i fascisti non si sarebbero mossi da Parma fino al giorno in cui tutti i poteri non fossero ceduti all’autorità militare. Subito dopo ho fatto conoscere lo stato esatto delle cose ai fascisti, col seguente ordine del giorno: «Le autorità si sono fatte giuocare dai bolscevichi scioperaioli. «Si è tentato di dare alla cessazione delle ostilità un carattere di alleanza fra i soldati e i dimostranti, negatori della Patria. «Se coloro che sono preposti alla tutela del piú santo patrimonio ideale che ancora possediamo, non lo sanno difendere, noi insorgiamo a difesa della dignità dell’Esercito vilipeso. «All’armi, o fascisti. «Riprendiamo la battaglia nel nome dell’Italia immortale. Il Comando fascista della Città ». Si può dire che da oggi incomincia la nostra maggiore battaglia. Ho impartito disposizioni, per mezzo di staffette, a tutti i Fasci della regione affinché la mobilitazione generale dei fascisti continui. Devono essere presenti a Parma dagli otto ai diecimila fascisti in permanenza. La disciplina di guerra impera. Provvedimenti severi sono stabiliti per coloro che compissero azioni isolate e non autorizzate. Ho avuto conferma dell’indegna condotta prefettizia da un bollettino di guerra di Picelli in cui si annuncia che le autorità hanno garantito la protezione del sobborgo, l’impunità ai rivoltosi e non insisteranno per la consegna delle armi. Sono qui giunti anche Buttafochi, Farinacci, Bigliardi, Ranieri. Buttafochi tiene il collegamento con Michelino. È in continua comunicazione telefonica con lui. Non sempre però il mio rapporto indiretto col Segretario del Partito è soddisfacente. Oggi Michelino mi fa sapere attraverso Buttafochi che io debbo ad ogni costo evitare un conflitto tra le squadre fasciste e i reparti dell’Esercito. Non ho mai pensato a provocare i soldati, che del resto sono qui comandati da un patriotta e da un gentiluomo, il generale Lodomez. Ma mentre infierisce la battaglia è difficile proporsi dei limiti assoluti. Una cosa è sicura: noi non possiamo perderla. Si sono svolte stasera, sotto il mio personale comando, azioni violente. Baccolini funge da aiutante maggiore. Attivissimi Arrivabene, Moschini, Bigliardi, Zanni, Ranieri. Ci siamo spinti a fondo nei quartieri inespugnati. Si va all’assalto delle trincee sovversive coi sistemi di guerra. Molti feriti. Tre morti. Non sappiamo le perdite esatte. I sovversivi non lasciano uscire i loro colpiti. Li ritirano all’interno dei quartieri di cui sono ancora in possesso: curano i feriti nelle case. Qualcuno continua a spingersi nel centro. Questa sera si è sparato anche in piazza Garibaldi. Un giovane in camicia nera è giunto fino presso l’albergo Croce Bianca, gremito di fascisti, dove ha sede il Comando e ha lanciato una bomba a mano. Per fortuna non è scoppiata. Inseguito a revolverate da tutti i presenti, si è difeso indietreggiando di corsa e sparando. Quantunque ferito è riuscito a scavalcare la barricata e a ritornare coi suoi. Lunghe colonne di autocarri carichi di fascisti continuano ad affluire: traversano la città cantando le canzoni degli arditi. Arrivano anche treni speciali. Alle 21 gran rapporto di tutti i comandanti delle forze giunte a Parma: circa 10 mila Camicie nere. Notificazione degli accantonamenti: finché è possibile si utilizzino le scuole: nucleo principale quelle di S. Marcellino. Ma non basteranno. I fascisti dovranno accantonarsi sotto i portici, sulla paglia. Da Reggio Emilia hanno portato due mitragliatrici. Sono presenti a Parma anche squadre di Venezia. Questa notte la nostra azione si è sviluppata anche in provincia: a Sala Baganza, dove è stato ucciso un fascista, la salma è stata seviziata. La nostra rappresaglia è stata terribile. I fascisti hanno bruciato e distrutto tutte le sedi delle organizzazioni rosse e le case dei caporioni socialisti. Nella lotta accanita abbiamo avuto tre feriti compreso Arrivabene ed è rimasto ucciso un operaio. Al ritorno però un altro fascista è stato ucciso presso il ponte del Taro, dove nuclei di sovversivi armati volevano impedire il passaggio. Gruppi scelti bloccano le strade d’accesso a Parma affinché non giungano armi e viveri ai sediziosi dell’oltretorrente. Da ieri, sulle torri e sui campanili della città, i migliori tiratori dei nostri controbattono i cecchini avversari. Quanto spreco di munizioni! Oggi alla Scuola di Applicazione hanno calcolato che siano stati sparati 10.000 colpi! 5 agosto (alba) - Parma. Notte insonne. Coi miei ufficiali studio accurato della riva sinistra del torrente dove oggi deve essere tentata l’incursione fascista per smantellare definitivamente la fortezza sovversiva. Impressione profonda della battaglia che si svolge nella notte con tentativi di sorpresa dei comunisti e dei nostri. Di là dal fiume le opere difensive sono state rafforzate. Nell’oscurità profonda, canti di guerra e canti sovversivi. Nei cori molte voci di donna. Mentre ispezionavo le sentinelle di fianco al ponte Caprazzucca sul viale Pasetti, ho udito nella notte un’orrenda canzone giungere di là dal fiume: «Hanno ammazzato Berta, Figlio di pescecani. Evviva il comunista Che gli spezzò le mani». Brivido di orrore. Povero martire nostro! Ho preso dalle mani della sentinella il moschetto e ho tirato sei colpi nel vuoto verso il canto lontano. Buio e silenzio. 5 agosto (ore 12) - Parma. Alle 9 di stamane ho tentato personalmente di colpire gli avversari penetrando nel centro della loro resistenza. Ho preso 100 uomini tra i piú fidati. Per un’ora e mezza, abbiamo tentato di valicare i ponti sul torrente, vigilati dai cordoni di truppa. Difficoltà inaudite. Bisognava tornare di continuo daccapo. Eccoci finalmente nella città vecchia. L’azione di sorpresa stava per riuscire in pieno, quando, innanzi alla Camera vecchia del lavoro, ci siamo trovati di fronte a un cordone di soldati che ci ha sbarrato la strada. Mi sono avanzato verso il Maggiore e gli ho imposto di lasciarmi il passo. Risposta risolutamente negativa. Ho detto che avremmo usata la forza. Il Maggiore mi ha replicato che aveva ordini tassativi: sparare senza esitazione. Ha aggiunto che il suo onore di soldato non gli permetteva di disobbedire. Mi ha mostrato l’ordine scritto. Se avessi insistito, avrebbe ordinato il fuoco e si sarebbe poi fatto saltare le cervella. Momento di emozione. Ho compreso le ragioni degli ordini di Michele Bianchi comunicatimi ieri da Buttafochi. Ho ordinato l’«alt» ai miei uomini. Intanto, dietro i cordoni dei soldati, dai tetti e dalle finestre, si urla: «Lasciateli passare! li ammazzeremo noi!». Scena selvaggia. È sopravvenuto il generale Lodomez. I miei squadristi schierati di fronte per due si mettono sull’attenti. Lodomez mi conferma che l’ordine è perentorio. Anch’egli non può trasgredirlo. Ormai l’allarme è stato dato in tutto l’oltretorrente. Noi dovevamo agire di sorpresa. Ora la sorpresa è annullata. Oltre al conflitto con i soldati dovremmo affrontare con 100 uomini qualche migliaio di avversari. Andremmo incontro a una strage sicura. Debbo con rincrescimento ordinare agli squadristi di prendere la strada del ritorno. Dalle case in fondo alla strada i provocatori ci inseguono con grida minacciose ed insulti. Alle 11,30 riunione in Prefettura dove Fusco ha convocato un’adunanza plenaria di tutte le autorità cittadine. Con la mia scorta di cento squadristi armati, non senza un senso di disagio, mi reco dal prefetto. Oltre al generale Lodomez, al sindaco, al presidente della Corte d’Appello, al procuratore del Re, trovo i rappresentanti del Partito Popolare e del Partito Democratico. Bei personaggi. Presenti anche i dirigenti dell’Associazione Combattenti e Mutilati. Soliti inviti del prefetto a desistere dalla azione militare delle squadre. Mia risposta: «Non abbandonerò l’impresa finché il prefetto non avrà ceduto i poteri all’autorità militare». Il sindaco di Parma si è associato alle mie parole. Ho aggiunto che saremmo certamente arrivati all’estreme conseguenze, se non avessimo avuto la garanzia del rastrellamento di Parma vecchia, dell’arresto dei capi e del sequestro delle armi. 5 agosto (ore 18) - Parma. Sono stato avvisato che il Vescovo di Parma, monsignor Conforti, desidera farmi visita. Nell’atrio dell’albergo ho schierato gli ufficiali di servizio e di collegamento. Quando il Vescovo si è presentato, sono scattati sull’attenti e il picchetto ha presentato le armi. Il Vescovo è passato attraverso una duplice schiera di militi che gli rendevano gli onori. L’ho ricevuto con tutto il mio stato maggiore. Al mio fianco gli onorevoli Buttafochi, Corgini, Lancellotti e Oviglio, giunto stamane. Il Vescovo ha dichiarato, con nobili parole, di mettere a disposizione tutta la sua autorità per un tentativo di pacificazione. Ho risposto esprimendo la nostra riconoscenza. Ci inchiniamo riverenti davanti all’alta autorità del Pastore. I fascisti non desiderano che restaurare l’ordine e la libertà: e prima di tutto la libertà religiosa. Nobilissimo è l’atto di pietoso interessamento del Vescovo: ma impossibile approfittare dell’offerta di pace. Non possiamo sgombrare Parma sinché non sono ristabilite le condizioni normali. Colloquio improntato a grande deferenza reciproca. Accompagno il Vescovo mentre esce salutato dal «presentat’arm» del picchetto agli ordini di Bigliardi di Reggio Emilia. 5 agosto (ore 22) - Parma Purtroppo abbiamo avuta la prova della solidarietà tra sovversivi e popolari. Oggi è stato ucciso, mentre sparava contro le nostre squadre, certo Corazza, noto popolare di Parma. I fascisti hanno visto un grosso prete rubicondo agitarsi dietro le barricate dei sovversivi a portare panche e sedie di chiesa. Momento di aberrazione. Contrasto con le parole cristiane di Monsignor Conforti. 5 agosto (ore 23) - Parma. Non sempre, purtroppo, gli ordini severissimi impartiti per la disciplina delle squadre vengono rispettati. Sono stati devastati gli studi di alcuni avvocati: Albertelli, Provinciali, Ghidini, Grassi, Baracchini, Ghisolfi. È stata impedita l’invasione degli studi dell’avv. Candian e del senatore Berenini. Infiltrazioni di interessi privati e losche vendette di personaggi che fanno capo al processo Lusignani. Ogni rivoluzione ha la sua feccia. Ho emanato quest’ordine del giorno: PARTITO NAZIONALE FASCISTA COMANDO DELLA PIAZZA DI PARMA «Il Comando militare fascista deplora vivamente che un gruppo di sconsigliati, certo male informato sulla attività politica di determinate persone e sorpreso nella sua buona fede da loschi individui, abbia commesso devastazioni non ordinate e tanto meno approvate, ed assicura la cittadinanza che sono già stati espulsi dal Partito i fascisti colpevoli e che saranno del pari puniti gli incitatori, diretti o indiretti, che però non hanno nulla a che fare con il Fascismo. « Parma, li 5 agosto 1922 . Il Comando ». I capi mi fiancheggiano con energia nell’opera di epurazione. Il camerata Granelli mi scrive: «Parma 5 agosto 1922. AL COMANDO D’AZIONE IN PARMA «Informo codesto Comando di aver sorpreso il fascista Rossi Alfredo abitante in borgo Giacomo Tommasini n. 28 fra i partecipanti alla devastazione dell’appartamento dell’avv. Ghidini e di averlo schiaffeggiato. Guido Granelli ». Bravo Granelli! La disciplina è tanto piú necessaria oggi che la battaglia infuria sempre piú selvaggiamente. Bilancio della giornata: 5 morti e un centinaio di feriti. 6 agosto (ore 2 di notte) Parma. Alle 24 notizia della nostra vittoria. Lo stesso generale Lodomez, comandante del Presidio, è venuto ad avvertirmi al Comando che il Governo aveva accolto la domanda fascista e aveva affidato tutti i poteri della città di Parma all’autorità militare destituendo il prefetto e ordinando lo stato d’assedio. Di fronte alla strepitosa ritirata governativa, ho immediatamente ordinato la smobilitazione. Ordine di servizio da diramare d’urgenza: PARTITO NAZIONALE FASCISTA COMANDO DELLA PIAZZA DI PARMA A tutti i reparti dipendenti presenti in Parma . «Dalle ore 24 i poteri nella città di Parma sono stati assunti dall’Autorità Militare. «È questa una vittoria, perché il governo aderisce finalmente alla nostra richiesta esautorando l’indegna autorità politica complice e responsabile dell’attuale situazione. «Il passaggio dei poteri all’Autorità Militare significa però la nostra partenza e l’immediato ristabilimento delle normali condizioni di vita, scopo che ci eravamo prefisso fin dal primo giorno della nostra azione. «Per evitare nel modo piú assoluto il minimo conflitto con l’Esercito, che è e deve rimanere sempre il nostro piú prezioso alleato, ordino nel modo piú preciso: «1. che dall’alba di oggi spariscano completamente tutte le armi. I capi reparto ritireranno nelle caserme fucili, moschetti e munizioni dei loro uomini e le rivoltelle troppo appariscenti che non possono essere nascoste nelle tasche; «2. che si prepari la partenza di tutti i reparti per le ore 12 di oggi. «Alle ore 10 nella sede del Comando sarà tenuto il gran rapporto nel quale saranno impartite istruzioni per far proseguire le armi ai paesi di provenienza dei singoli reparti e per stabilire le modalità della partenza. «Tutti gli uomini dovranno pertanto rimanere negli accantonamenti: i comandanti di reparto risponderanno personalmente dell’osservanza scrupolosa di queste disposizioni. L’Ispettore Generale Comandante la Zona F.to Italo Balbo». Saluto e appello alla popolazione di Parma: «Fascisti! «I poteri, nella provincia di Parma, sono passati nelle mani dell’Autorità Militare; è eliminata cosí quell’ambigua autorità politica, che per inerzia, insufficienza e inconcepibile debolezza, ha permesso ad un gruppo di rivoltosi un movimento anarcoide rivolto contro la Nazione e contro i cittadini. «Da questo energico provvedimento vogliamo trarre buoni auspici pel ritorno alla vita civile, pel ristabilimento della vita italiana. «L’Esercito non può patteggiare per i criminali che comandano le trincee d’oltretorrente, senza travolgere in simili trattative un onore rimasto immacolato, nonostante le avverse fortune dell’Italia, nonostante le delittuose attività dei Governi. «Camicie nere! «Fedeli al nostro principio di devozione per l’Esercito glorioso, obbediamo agli ordini di coloro che ci condussero a travolgenti vittorie, e smobilitiamo, sciogliendo alle 10 d’oggi il Comando militare fascista della città. «Cittadini di Parma! «I fascisti, accorsi al vostro primo appello, ritornano oggi alle loro case, con il convincimento d’aver compiuto un sacro dovere e pronti sempre a mettere il loro petto a vostra difesa se, pel futuro, gli avvenimenti lo richiederanno. «Oggi unite il vostro palpito al nostro, per lanciare un grido che s’elevi sopra le rovine e sopra le tombe, a promettere un piú tranquillo avvenire di pace feconda: «Viva la Patria! Viva l’Italia! Il Comando ». Quest’ultimo manifesto deve essere stampato questa notte e affisso per tutte le contrade della città alle prime luci dell’alba. Intendo però che i fascisti lascino la città nel modo piú degno e con una certa solennità. 6 agosto (ore 12) - Parma. Alle dieci, nella Piazza di Parma, grande rivista delle legioni che stanno per partire. Fascisti superbamente inquadrati nei loro reparti, provincia per provincia, agli ordini dei valorosissimi capi. Parole di saluto e di plauso. Hanno fatto splendidamente il loro dovere e piú del dovere. L’azione di Parma è la maggiore che il Fascismo abbia tentato. La vittoria conseguita ci compensa del duro combattimento di questi giorni. Invito a mantenere intatto lo spirito battagliero di cui hanno dato prova tutti, capi e gregari. Formidabile saluto alla voce a Mussolini. 6 agosto (ore 15) Parma. Passaggio dei poteri al generale Lodomez. Proclamazione dello stato d’assedio. Tra qualche minuto lascio Parma. I sovversivi mi hanno dato il saluto delle armi sparando colpi di rivoltella contro la mia automobile davanti all’albergo. Ci siamo lanciati all’inseguimento, ma gli sparatori sono riusciti facilmente a dileguarsi. L’autorità militare ha trasportato due cannoni nell’oltretorrente. Al primo colpo sparato a salve, i sovversivi hanno alzato bandiera bianca e i soldati hanno preso possesso di tutto il quartiere sequestrando armi e munizioni. Posso partire tranquillo. Ma la mia fatica non è finita. Gay mi manda a dire che la situazione di Ancona è capovolta. I fascisti hanno vinto una bella battaglia. Debbo senza indugio recarmi nella città adriatica, dove la normalità non è ancora ristabilita. 7 agosto. Da Parma a Ancona. Viaggio fra colonne di fascisti che ritornano alle sedi. Stanchezza immensa. Tra Pesaro e Fano, in un angolo di spiaggia deserta a ridosso del monte, faccio fermare l’automobile. È notte alta. Mi butto in mare completamente nudo. Questo bagno mi ritempra. Penso che ad Ancona altro duro lavoro è preparato per noi. Notizie incerte e contraddittorie. Da questi paesi del litorale è impossibile sapere qualche cosa di preciso. 7 agosto (ore 12) Ancona. Contrariamente a quanto mi attendevo, in città è stata raggiunta la calma. Lo sciopero è finito, i sovversivi sono sconfitti. Rapide interviste con i camerati di Ancona e con quelli di Bologna che sono qui presenti. La situazione ha ancora bisogno di essere sorvegliata. Raccomando soprattutto la disciplina che, secondo quanto mi raccontano, ha lasciato un poco a desiderare. 9 agosto - Ferrara. Un po’ di pace in seno alla famiglia. Non solo per me. I miei vecchi genitori hanno diritto a questo compenso dopo tanti giorni di pena. Il mio riposo consiste nello specchiarmi nel viso raggiante di mia madre. Ricevo ora una bella lettera di Michele Bianchi: PARTITO NAZIONALE FASCISTA DIREZIONE Roma, 8 agosto 1922. «Carissimo Italo, «L’amico Grandi mi riferisce che sei imbronciato con me per il telegramma che ti inviai a Ravenna e per la comunicazione telefonica trasmessati a mezzo di Buttafochi. Ritengo opportuno chiarire gli equivoci. A Ravenna ti telegrafai nel senso che sai perché, partendo per Ravenna, Grandi mi aveva avvertito di aver avuto un abboccamento con Comandini il quale si era dichiarato propenso all’intesa che poi stendeste assieme. Ignoravo, nel momento in cui ti telegrafavo, che tu e Baroncini, molto opportunamente, avevate già preso contatto coi capi repubblicani locali. Nel dubbio che alla notte, precedente l’arrivo di Grandi, tu dovessi ordinare qualche azione contro i repubblicani, il che avrebbe reso molto piú difficile l’intesa, ti telegrafai di attendere l’arrivo di Grandi perché tu potessi essere informato delle trattative corse con Comandini. «E passiamo alla telefonata Buttafochi. «Il Ministro Taddei mi aveva lasciato molto chiaramente intendere che aveva impartito ordini perché la truppa non si facesse scrupolo di tirare sui fascisti. Io telefonai a Buttafochi di pregarti di evitare ogni conflitto con la truppa. Né piú né meno. D’altra parte tu stesso, e anche in questa circostanza molto opportunamente, hai súbito, da persona intelligente, intuita la situazione. «Ti faccio le piú vive congratulazioni per l’atto politicissimo compiuto nei riguardi dell’Arcivescovo di Parma. La notizia produsse negli ambienti della capitale una grande e favorevole impressione. «Smetti dunque il broncio. È ridicolo che tu possa solo sospettare della mia piena, incondizionata, illimitata, fraterna fiducia in te. La mia fiducia in te non ha confini, come non ha confini il bene che ti voglio. «E ti abbraccio e ti bacio. Michele Bianchi ». 13 agosto - Milano. Sono arrivato a Milano ieri sera. Subito al Popolo d’Italia. Mussolini mi ha fatto accoglienze affettuose: era desideroso di informazioni particolareggiate sulle giornate di Parma. Gli ultimi avvenimenti sono stati raccontati sommariamente dai giornali. L’ho messo al corrente della situazione illustrandone il carattere eccezionale, il temperamento degli uomini, gli sviluppi che potrà avere. Il Popolo d’Italia è affollato di camerati giunti da ogni parte. Esso è il nostro punto di riferimento ideale. Stamane riunione della Direzione del Partito, del Comitato Centrale, del Gruppo Parlamentare e della Confederazione delle Corporazioni. Dalle settanta alle ottanta persone. Molti nuovi incontri, soprattutto di fascisti del Mezzogiorno: Guerresi della Calabria, Caradonna della Puglia: c’è anche Padovani, che raramente lascia Napoli. Il Fascismo, movimento unitario, ha esteso ormai la sua conquista nel sud. La riunione è stabilita nei locali del Fascio milanese in via San Marco. Ha un carattere piú riservato di quella del marzo. La sala in cui siamo convocati è molto semplice e severa. Invece non mi piace troppo l’ufficio di Cesarino, dove i mobili sono troppo pretenziosi. Relazione di Michelino sul fallimento dello sciopero «legalitario». Breve discussione. Tutti i presenti parlano con l’orgoglio che dà la vittoria. Discorsi in do maggiore. Parlo anch’io sulla relazione: mi dico preoccupato per le azioni isolate. I fascisti hanno trionfato su tutta la fronte di battaglia, ma occorre coordinare le forze proprio oggi che siamo maggiormente carichi di responsabilità. Non bisogna abusare della buona sorte. Non sempre certe azioni sono degne di essere combattute. Propongo che la Direzione del Partito, che ha una visione generale delle cose, sia informata preventivamente dei propositi che i Fasci locali perseguono. Ma soprattutto insisto affinché intervenga una disciplina e un ordinamento definitivo delle squadre di combattimento. Occorre un organo direttivo centrale. L’organizzazione degli Ispettori di zona, come ha funzionato fin qui, è insufficiente. Michele Bianchi si associa e mette la firma sul mio ordine del giorno. Resta inteso che la nomina del Comando Generale delle squadre è demandata alla Direzione del Partito, la quale se ne occuperà subito dopo questa riunione. Il Comitato centrale ha avuto il cómpito di esaminare le posizioni raggiunte nelle singole regioni italiane. Ciò permette di formulare piani piú precisi sugli obbiettivi avversari. La discussione è condotta personalmente da Mussolini, di cui ammiro ancora una volta l’energia nell’indurre i presenti a non divagare su argomenti di secondaria importanza. Avverto ormai come il Capo induca le gerarchie fasciste a superare qualsiasi suggestione dei piccoli avvenimenti, degli interessi locali e delle suscettibilità personali. Egli ci fa sentire come incombano ormai doveri piú alti. Anche la discussione che segue sugli organismi sindacali, si sviluppa rapida e viva sugli argomenti essenziali. Subito dopo si raduna in piccolo comitato la Direzione del Partito, di cui faccio parte. Ma prima che la discussione si inizi, vengo chiamato in privato per uno scambio di idee sulla nomina del Comando generale della Milizia. Tanto il Duce quanto il Segretario del Partito mi dicono che debbo farne parte. La mia esperienza, che in questi ultimi mesi si è intensificata, deve essere messa al servizio del nuovo organismo. Entrambi aggiungono che io proponga la nomina di due altri camerati, coi quali formare il Comando. Faccio colazione con De Vecchi, al quale penso per il primo. Gli esprimo le mie preoccupazioni sulle necessità del momento. La forza fascista è formidabile e lo stesso inquadramento procede quasi automaticamente, provincia per provincia. Ma vi è pericolo di interferenze: non sono definite con precisione le sfere di competenza: la disciplina lascia spesso a desiderare. L’inquadramento unitario della Milizia, per tutti gli scopi che il Fascismo si propone, è condizione assoluta. De Vecchi è entusiasta della mia proposta. Dico che il terzo camerata da assumere al Comando dovrebbe essere un Generale, o Teruzzi che ha una grande e nobile esperienza della vita militare. Ma è già vice-segretario del Partito e come tale è naturalmente designato per il collegamento con il Comando delle squadre. Gandolfo è malato, ha una particolare situazione familiare con la moglie inferma in una casa di salute: difficilmente quindi potrebbe essere mobile come esige questa nuova funzione. Il Generale dovrà con noi spostarsi di continuo di provincia in provincia, di regione in regione. L’efficacia della nostra azione sta nella possibilità di presiedere personalmente alle formazioni della forza fascista. Nel pomeriggio, mentre torniamo in via San Marco, senza avere scelto ancora il nome da proporre alla Direzione del Partito, incontriamo alcuni amici del Fascio milanese, tra cui è un colonnello dei bersaglieri. Questi, avuto sentore del problema che ci agita, ci fa il nome del generale De Bono, che durante il recente concentramento di Milano ha sfilato come semplice gregario, confuso nella massa dei fascisti. Tutti hanno ammirato il valorosissimo Generale, comandante di Corpo d’Armata, eroico in guerra e fierissimo nel dopo-guerra contro la tracotanza sovversiva, marciare con la sua barba bianca in mezzo ai giovani del Fascio milanese. De Vecchi lo conosce e proclama subito che non potremmo fare una scelta migliore. Io ricordo il suo sdegnoso atteggiamento allorché, per non accettare una transazione coi rossi che il Governo richiedeva, se n’è andato da comandante del Corpo d’Armata di Verona, e si è messo volontariamente in posizione ausiliaria speciale. Domando al colonnello Sacco, che è una specie di segretario particolare del generale De Bono e gode tutta la sua fiducia, se può recarsi subito da lui e domandargli che cosa pensi della nostra proposta. Ma De Bono è a Cassano d’Adda. Sacco prende su se stesso ogni responsabilità per la sua nomina al Comando generale della Milizia. Sa che De Bono è fascista fino al midollo delle ossa e che accetterà senz’altro. Porto il nome di De Bono in seno alla Direzione del Partito. È noto a tutti, ma pochi lo conoscono personalmente. Gode di un tale prestigio che la sua nomina viene senz’altro ratificata insieme con quella di De Vecchi e con la mia. Dopo la riunione, Mussolini mi ha portato con sé sulla sua veloce macchina da corsa. Gita emozionante. Trovo che guida con un’audacia straordinaria, a velocità troppo forte e qualche volta rasenta paurosamente i trams. Ma è preciso e sicuro. Del resto andrei con lui in capo al mondo... e oltre. 14 agosto - Milano. Prima di partire chiedo di vedere il generale De Bono. Incontro al Fascio di Milano. È una persona che incute, in modo ugualmente irresistibile, rispetto e simpatia. Contrasto tra la testa calva, la barba bianca e la giovanile energia e sveltezza della sua persona. Aperto, brillante. Ha uno charme particolare, unico, che conquista di colpo. Uno spirito fresco, ricco di arguzie incisive. Visione larga della vita, memoria di ferro. Spira energia e umanità. Abbiamo súbito uno scambio di idee all’albergo. Tanto De Vecchi quanto io constatiamo la perfetta identità di vedute con De Bono. Nulla sfugge al Generale dei problemi dell’ora. Il tono si fa immediatamente confidenziale. Ci si conosce da cosí poco tempo e pare di essere stati sempre insieme. Viene decisa una prossima riunione in Piemonte, a Torre Pellice, o in qualche altra località che sarà designata da De Vecchi. Procederemo a rinnovare il vecchio regolamento che fu stabilito da Perrone, da Gandolfo e da me nel gennaio a Oneglia. Esso ha funzionato fino ad oggi: ma sui suoi inconvenienti siamo tutti d’accordo. Ha il difetto del tempo. Qualche mese fa ci si preoccupava forse un po’ troppo delle parole. La definizione di «principi» e di «triari» non manca ora di far sorridere. Il nuovo organismo militare dovrà procedere a un severo ordinamento disciplinare. Non appena nominati gli Ispettori di zona, di cui abbiamo rapidamente e sommariamente prospettato i possibili candidati, li raccoglieremo a gran rapporto. Ciascuno di noi farà una settimana di turno quale Comandante generale. Debbo dire, a conclusione di queste giornate di Milano, che mi è parso che una grande trasformazione dello spirito generale del Fascismo sia maturata dopo le ultime vicende. Nessuno sa di preciso quel che accadrà. Non ci siamo imprigionati in programmi rigidi. Sappiamo che il Capo manovra con la energia e con l’abilità che gli sono proprie. Ma lo scatto insurrezionale è inevitabile. L’insurrezione è ormai in atto. Se ne respira l’aria. Per conto mio sono convinto che il momento decisivo non è lontano. Il Fascismo sta perfezionando gli strumenti della conquista: il Comando generale è fra questi. 15 agosto - Milano. Finalmente i giornali annunciano che il prefetto Mori è trasferito da Bologna a Bari. Non è un regalo per i nostri amici di Puglia, ma il suo trasloco corona vittoriosamente la battaglia di Bologna. Come sempre, è difeso dai ridicoli socialisti. Arturo Vela ha fatto un’interrogazione alla Camera sull’atteggiamento ostile che verso Mori hanno già assunto i fascisti di Bari. 19 agosto. Il Governo vuol darci ad intendere che procede con mano di ferro verso i ferrovieri che hanno tradito il loro dovere durante lo sciopero generale. Ma è difficile prenderlo sul tragico. Fanno finta d’arrabbiarsi soltanto i socialisti. In tutto sono state punite 120 o 130 persone. Il comico della situazione sta in questo: che, secondo quanto affermano i rossi, il Governo poté ottenere la cessazione dello sciopero soltanto promettendo ai caporioni che avrebbe lasciati del tutto impuniti gli atti di abbandono del lavoro e di sabotaggio che i ferrovieri sfoggiarono per tre giorni. Facta ha smentito oggi questa notizia. Ma tutto fa credere che il compromesso vi fu. È nell’ordine delle cose. Questo chiasso annega nel ridicolo Governo e socialisti; si fanno reciprocamente la faccia feroce, salvo a darsi la mano di nascosto quando non sanno piú che pesci pigliare. 20 agosto. Sotto l’auspicio del generale Lodomez e dei mutilati e combattenti, è stato firmato a Parma un trattato di pace tra le forze sovversive e le cosiddette forze dell’ordine. Purtroppo tra queste ultime figurano anche le organizzazioni fasciste. Il documento, scritto in tono evangelico, garantisce le piú sconfinate libertà di parola, di propaganda e di azione alle parti che sino a ieri si sono combattute a colpi di fucile e mitragliatrice. «Nell’intendimento d’agevolare il ritorno ad uno stato di ordine e di pace, necessario a garantire il normale e fecondo processo della produzione e del lavoro, dietro iniziativa dell’Associazione dei Mutilati e dei Combattenti e delle Mutue, si sono adunate nella sede della Deputazione provinciale le autorità cittadine e le rappresentanze legittime delle organizzazioni politiche ed economiche della città, quelle della provincia e della stampa. Gli adunati, impegnando se stessi e gli enti che rappresentano, hanno unanimemente riconosciuto che l’invocato impero delle leggi nel pieno esercizio di tutti gli organi dell’autorità statale non può efficacemente consentirsi che mediante il concorde e fermo volere di tutti i cittadini di esercitare i loro diritti individuali e collettivi in una sana atmosfera di civile libertà. Al raggiungimento di tale fine è ritenuta condizione inderogabile il rispetto ai seguenti principî, che sono norme fondamentali di civile convivenza: «1. Rispetto reciproco della libertà di stampa, di parola e di propaganda nel campo politico e sindacale, nei limiti delle vigenti leggi. «2. Nessuna intimidazione alla stampa, che dovrà usare della libertà di critica con riguardo alla forma civile e corretta. «3. Nessuna violenza contro le persone e le cose. «4. Qualsiasi trasgressione dovrà essere d’ora innanzi considerata come azione individuale da reprimersi nelle forme disciplinari proprie di ciascun partito, cui il trasgressore appartenga. «5. All’esecuzione delle clausole di questo patto vigilerà un Comitato arbitrale formato di cinque membri, che provvederà alla nomina del Presidente, e ad esso dovranno denunziarsi le infrazioni al patto e le contestazioni che potessero sorgere intorno alla sua applicazione. «A comporre il Comitato sono stati destinati i senatori Berenini, De Bono, Lagasi, Mariotti e Torrigiani». Evviva la repubblica di Parma posta sotto la protezione dell’on. Berenini! Si può essere piú ingenui di cosí? Io so che il documento è nato sotto gli auspici dell’on. Terzaghi. Evidentemente è un’anima candida. Forse anche smemorata. I 14 morti e le centinaia di feriti di qualche settimana fa avrebbero potuto suggerirgli qualche consiglio prima di lasciarsi prendere nella trappola di tutte queste libertà. Tra noi e gli avversari vi è un abisso che non si colma con una formula. Tutto sommato questa insalata russa di comunisti e di generali mi pare contro natura. Il patto-manifesto porta la firma di De Ambris, Picelli e degli altri socialisti! Avranno ragione loro. Forse io non sono lungimirante. E Mussolini? Mi pare che la soluzione trovata da Terzaghi sia in netto contrasto col suo temperamento e con le sue idee. 23 agosto. Il Giornale d’Italia ha pubblicato ieri una pseudo-lettera di ufficiali dell’Esercito che tira in ballo la Corona a proposito del Fascismo: «Signor Direttore, «Permetta che alcuni ufficiali decorati e comandanti di compagnia si rivolgano al suo giornale perché sia risolto un dubbio che in questi giorni contrista l’animo nostro. Noi, è inutile negarlo, siamo simpatizzanti per i fascisti che combattevano i bolscevichi. Oggi le polemiche parlano di Re e di Monarchia. Bisogna che Mussolini parli molto chiaro. Il nostro giuramento di fedeltà non può essere intaccato. Se i fascisti fossero e si mettessero contro la Corona, il nostro comando sarebbe «fuoco fermo». Gli ufficiali dell’Esercito italiano prima di tradire si uccidono». Sarei pronto a fare qualunque scommessa: questo ridicolo brano di prosa è stato scritto nei locali stessi del giornale, da qualche redattore che conosce le anticamere dei ministeri. Bergamini ha creduto di fare un colpaccio e di metterci nell’imbarazzo. Persino i sassi sanno oggi che la tendenzialità repubblicana del Fascismo è un’aspirazione ideale, che allaccia il nostro movimento alle grandi correnti del Risorgimento, ma che praticamente non costituisce una pregiudiziale alla nostra azione. Noi siamo sul terreno della realtà, pronti a fronteggiarla, comunque ci si presenti. Non siamo legati alle formule. Quanto al «fuoco fermo», è una buffonata. Non possono scrivere cosí ufficiali dell’Esercito, ma soltanto chi è abituato a comandare squadre di linotypisti e di tipografi, in qualche stanzone male odorante di giornale, nei giorni in cui la Federazione del Libro permette agli operai di lavorare. Perché queste suscettibilità contro un partito politico che vibra di amor patrio come il nostro, non furono espresse e trasformate in azione contro i sovversivi nel 1919, durante il periodo della « caccia all’ufficiale»? Il Giornale d’Italia ci tratta come repubblicani del Sud-America. Non sa neppure quanti fili si intreccino di continuo tra l’Esercito e il Partito fascista. Ma Mussolini risponde per le rime sul Popolo d’Italia di oggi: «Il Giornale d’Italia è un giornale che si dice amico del Fascismo, e lo è certamente, ma abbiamo il fondato sospetto che nel Giornale d’Italia ci sia qualcuno che, di tanto in tanto, si diverte a vibrare colpi mancini al Fascismo. La pubblicazione di questa lettera appartiene al genere dei colpi mancini. Mussolini parla chiaro, anzi chiarissimo. Nessuno, oggi, trascina nelle polemiche la Corona, per quanto non mancherebbero discreti motivi per farlo. Abbiamo lasciato di insistere sulla «tendenzialità» famosa, mentre il Fascismo, in molte città d’Italia, come Lucca, Reggio Emilia, Trieste, ecc. ecc. ha reso ufficialmente omaggio al sovrano. Abbiamo anche dimenticato la triplice amnistia ai disertori. Dopo di che abbiamo il piacere di dichiarare che il Fascismo pratica la savia legge del «do ut des». La Corona non è in gioco, purché la Corona non voglia, essa, mettersi nel gioco. È chiaro? La minaccia del «fuoco fermo» ci lascia quindi indifferenti. Preghiamo il Giornale d’Italia di non costringerci a preferire la sua aperta ostilità alla sua infida amicizia». 23 agosto. Una sosta a Cattolica in famiglia. Non posso mostrarmi tranquillo perché qualche irresponsabile o peggio del Fascismo ferrarese (non sono tutte rose...) ha montato, per scopi non chiari, una questione che io credo assurda. Si vogliono trascinare gli operai saccariferi in uno sciopero contro gli zuccherifici, e Felici, che è giunto a Cattolica stasera, mi avverte che si stanno organizzando anche atti di sabotaggio contro le macchine e gli impianti degli stabilimenti. Sono arrivato in tempo. Ho avvisato Rossoni, che è a Bologna alla sede della Confederazione dei sindacati, e la questione sarà certamente risolta col suo intervento. Non mancherebbe altro che una buffonata di sciopero anarcoide proprio a Ferrara! 4 settembre. Prodigarsi senza risparmio nella fatica dell’organizzazione, combattere senza tregua contro nemici aperti e nascosti, rischiare la vita, donarla eventualmente senza un rimpianto, tutto questo è nulla di fronte alla tortura che mi impongono i nemici, mettendo in croce ogni giorno mia madre. A lei, durante il 1921, si facevano giungere le piú atroci minacce contro suo figlio; poi la proditoria campagna è stata sospesa per qualche mese; ora ricomincia. Stamani nella buca delle lettere di casa era una busta con alcune pallottole di rivoltella e il solito scritto anonimo: «Queste sono confetti in confronto a quelle con cui ammazzeremo vostro figlio». Io sorrido. Ma l’angoscia che leggo sul viso di mia madre mi fa tremare. È destinata a soffrire tutte le torture di guerra anche al di là della guerra. Non c’è infamia che regga al confronto. Tento di scherzare con mia madre: «sai, forse, vogliono spararmi addosso col cannone...». 15 settembre. De Bono e De Vecchi sono riuniti a Torre Pellice. Mi hanno scritto che ormai il nuovo regolamento della Milizia è fissato. Non ho potuto intervenire alla riunione, per alcune penose ed urgenti questioni locali. Il rammarico è acuto, ma sono tranquillissimo. Conosco le linee generali del loro lavoro. Del resto ci vedremo súbito dopo il 20. Intanto insisto affinché presenzino di persona le adunate di questi giorni per la costituzione delle legioni. Io stesso ho in programma un vasto giro di ispezione e di raccolta: bisogna prendere contatto personale coi capi, saggiarli, intendersi con loro e affiatarsi in vista degli avvenimenti futuri. Il contatto diretto con la realtà ci permette di vedere come sono fatte queste legioni e se i loro ufficiali sono all’altezza. Spesso lo squadrista piú ardimentoso è negato alla realtà militare. Vi sono istinti individuali che confinano con l’anarchia. Fenomeni comuni a tutte le rivoluzioni. La disciplina è dura e qualche volta mortificante. Ma è la condizione del successo. 18 settembre. Congresso provinciale dei Fasci di Ferrara. Dimostrazione indimenticabile dei fascisti della mia provincia. Questa solidarietà centuplica le forze. Magnetico potere della fiducia di cui ci sentiamo investiti. Sento che agisce in me la volontà di innumerevoli spiriti. Il milite che segue il proprio capo ha per confine i limiti dell’ubbidienza. Si abbandona senza preoccupazioni. Vi è una specie di felicità nell’obbedire. Ma chi comanda affronta l’imprevisto e l’ignoto. La responsabilità è un peso duro a portare. Occorre il conforto di una grande fede: della fede che si ha in se stessi e di quella che gli altri affidano a noi. La fatica diventa lieve ed è bello lavorare quando il proprio lavoro è riconosciuto. Prima della chiusura del Congresso ho proposto che ogni Fascio invii un ciclista, col gagliardetto, alla grande adunata di Udine, dove Mussolini terrà dopodomani un discorso che si dice definitivo per il nostro movimento. Bisogna partire questa notte. Entusiasmo delirante. Si stanno scegliendo gli eletti, che sono oggetto di invidia da parte dei camerati. Nessuno mancherà all’appello. Tra poco partiremo. 19 settembre - Pordenone. I fascisti ferraresi sono magnifici. Siamo partiti a mezzanotte di ieri. Nessuno aveva dormito. Corteo di biciclette nella notte con le bandiere al vento. Paesi del Polesine avvolti nel sonno. Per la gran pianura, tagliata dalle strade interminabili, canti di guerra e canti fascisti. Padova, Treviso, le campagne del Friuli. L’alba ci ha sorpreso in marcia. Tappe ordinatissime, sobrie refezioni. Sole e polvere. Ora eccoci a Pordenone. Questa gente, non allenata, ha percorso 200 chilometri in bicicletta ed è giunta stasera regolarmente alla tappa. Non manca nessuno. I fascisti friulani ci hanno accolti festosi. Non c’è regione d’Italia dove non vibri spirito fraterno. Io sono arrivato a Pordenone qualche ora prima, per provvedere agli accantonamenti. Pisenti ha mandato qui un suo uomo di fiducia perché trattenuto a Udine con Mussolini. Ma ha pensato a tutto meravigliosamente. I fascisti di Fer rara sono elettrizzati . Dormo a Pordenone fra la mia gente, e domattina entrerò a Udine con loro. 20 settembre - Udine. Non ho mai visto Udine cosí festante. Il Fascismo ha trasformato la vecchia città della guerra. Udine è abituata ad assistere a spettacoli straordinari. Molta storia è passata sotto le sue mura. Ma la sua popolazione non perde di solito quella tarda e pensosa calma che è propria della gente del nord. Invece oggi sembra percorsa da un brivido. Si vive in una strana atmosfera di vivacità e di attesa. Sono qui convenuti, a migliaia, fascisti di Trieste, del Goriziano, dell’Istria, di Fiume. Gente delle valli colle loro caratteristiche carrette. Donne dall’occhio profondo. Ovunque bandiere, movimento di squadre, canzoni fasciste. Quando Mussolini si è svegliato ha trovato schierati sotto l’Albergo Italia gli infaticabili 200 fascisti ferraresi coi loro gagliardetti. Camicie nere che la polvere ha reso quasi bianche, visi bruciati dal sole: ma le canne della voce sono potenti: lanciano a Mussolini un saluto che sembra una cannonata: i tricolori, le fiamme di combattimento, i gagliardetti garriscono al vento, alti sulle teste. Il Duce è commosso. È stupito per la rapidità della marcia. Sorride. Con questi uomini non è difficile conquistare l’Italia. Sa che sono pronti a un suo cenno. Ogni gagliardetto rappresenta migliaia di spiriti intrepidi e di cuori fedeli. Con Mussolini all’albergo. Oggi parla piú che mai secco e deciso. Giudica arrivato il momento di parlar chiaro anche alla massa. Mi dice che bisogna bruciare le tappe. Chiarirà nel discorso la posizione dei Fasci verso la Monarchia, sulla quale giocano gli avversari. Mi domanda notizie delle legioni che si stanno costituendo. Lo rassicuro. In meno di un mese il lavoro sarà compiuto. Intanto Pisenti raduna le squadre giunte a Udine. Passano sotto le finestre con le fanfare in testa. Si ode da lontano il brusio dell’enorme armata. Accompagno Mussolini, acclamato dalla voce delle moltitudini. Egli passa sotto un arco di centinaia di gagliardetti. Squilli. Silenzio religioso. Mussolini parla di fianco al piccolo tavolo. Il teatro è gremito. La sua voce sul principio è bassa, come in agguato. Poi il discorso si fa tagliente, incisivo. Passa sul suo viso l’onda del pensiero fulmineo. Gesti a scatti. Qualche volta si raggomitola su se stesso come a scavare la parola dall’interno del cuore: poi il pugno la porta in alto sulla persona eretta e la lancia alla moltitudine. L’uditorio è avvinto, travolto, affascinato. Cadono parole solenni, impegni definitivi, programmi di guerra, frasi che hanno un’importanza storica: «Il nostro programma è semplice: vogliamo governare l’Italia. Ci si dice: ‟programmi?”. Ma di programmi ce ne sono anche troppi. Non sono i programmi di salvazione che mancano all’Italia. Sono gli uomini e la volontà... «... Oggi che l’Italia è fermentante di Vittorio Veneto, oggi che questa Italia è esuberante di vita, di slancio e di passione, questi uomini che sono abituati soprattutto alla mistificazione di ordine parlamentare, ci appaiono di statura non piú adeguata all’altezza degli avvenimenti. E allora bisogna affrontare il problema: come sostituire questa classe politica che ha sempre, negli ultimi tempi, condotto una politica di abdicazione di fronte a quel fantoccio gonfio di vento che era il social-pussismo italiano. Io credo che la sostituzione si renda necessaria, e piú sarà radicale, meglio sarà. Indubbiamente il Fascismo che domani prende sulle braccia la Nazione, quaranta milioni, anzi quarantasette milioni di italiani, si assume una tremenda responsabilità. «... Io penso che la Monarchia non ha alcun interesse ad osteggiare quella che ormai bisogna chiamare la rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse perché se lo facesse diventerebbe subito avversaria, e se diventasse avversaria è certo che noi non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita o di morte. Chi può simpatizzare per noi non può ritirarsi nell’ombra. Deve rimanere nella luce. Bisogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un Monarca non sufficientemente Monarca. La Monarchia rappresenterebbe dunque la continuità storica della Nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile». Passano nel discorso di Mussolini, in fulmineo esame, i problemi del regime di domani: quelli esteri, quelli economici, quelli militari. È un programma di governo. A un certo punto si volta di scatto verso di me e mi domanda, in un intervallo di applausi scroscianti: «Da quanto tempo parlo?». Egli parla da 40 minuti, ma il discorso è cosí affascinante che gli rispondo con una bugia: «Da venti minuti». E Mussolini prosegue trascinandosi il fremente uditorio. Quando finisce, le ovazioni per tre volte portano il suo nome alle stelle. Camicie nere in catena faticano per frenare l’impeto della folla che vuole accostare il Duce. Gli chiedo brevemente: — Siamo dunque alla vigilia? Risponde: — Alla vigilia. Breve colazione intima all’albergo. Quindi sfilamento di tutta la massa fascista davanti al Castello. Sfilo coi miei ferraresi per la città, poi, giunto innanzi al Duce, lascio la colonna e mi metto alla destra del Capo. Ecco la squadra «Mussolini» di Udine. Seguono la banda ardita «Aldo Sette» e 24 gagliardetti delle squadre milanesi con Bianchi, Marinelli, Isola, Arnaldo Mussolini, Morgagni, Sanna e tutti i nostri amici lombardi. Poi gli squadristi di Trieste e della Venezia Giulia con Giunta, Bilucaglia, Albanese, Conforto, poi Giuriati, Bresciani e i veneti e tutti i friulani. Lungo giro per piazza Vittorio Emanuele fino al Castello. Lo spettacolo ci esalta. Sulla loggia, di fianco al Duce, pronuncio alla legione fascista friulana, regolarmente inquadrata, la formula del giuramento: «Nel nome di Dio e dell’Italia, nel nome di tutti i Caduti per la grandezza d’Italia, giuro di consacrarmi tutto e per sempre al bene dell’Italia». A gran voce rispondono giurando gli squadristi. Brevi parole di Mussolini. Poi di nuovo a piedi all’albergo. Il Capo è seguito da un’immensa fiumana di popolo. In piazza Venti Settembre ha chiamato a rapporto tutti i comandanti dei Fasci. Elogia il fervore e la disciplina. Ai miei ciclisti ha detto: «Questo vostro raid è un grande esempio sportivo e militare. Vi ringrazio e vi dichiaro che vi ammiro. Il Fascismo ferrarese è sempre all’avanguardia». Ho visto brillare l’occhio dei miei squadristi. Mentre sullo spiazzo del Castello i fascisti giuravano fedeltà alla causa della rivoluzione, una grande aquila reale volteggiava a bassa quota e a ruote larghe sulla città. I romani traevano dal volo dell’aquila auspicî di vittoria. 21 settembre. Ieri, mentre a Udine giurava la legione friulana, De Bono e De Vecchi hanno presenziato al giuramento di ventimila camicie nere ad Alessandria. Adunata che farà epoca nella storia del Piemonte. Cosí l’inquadramento dei nostri uomini continua da un capo all’altro d’Italia. 24 settembre. Altra grande rassegna di forze fasciste a Cremona. Inaugurazione di 50 gagliardetti di organizzazioni sindacali. Fronte economico del Fascismo. Presenzia Mussolini. Siamo in attesa del suo discorso. Il Duce segna ormai le tappe accelerate della nostra avanzata. 25 settembre. Enorme ripercussione del discorso di Mussolini. Impossibile arrestare la marcia. Egli, ormai, ne comanda l’avanguardia con impeto irresistibile. Noto qualche punto del suo discorso: «Ebbene, o fascisti, grandi compiti ci aspettano. Quello che abbiamo fatto è poco a paragone di quello che dobbiamo fare. C’è già un contrasto vivo, drammatico, sempre piú palpitante di attualità, fra un’Italia di politicanti imbelli e l’Italia sana, forte, vigorosa, che si prepara a dare il colpo di scopa definitivo a tutti gli insufficienti, a tutti i ribaldi, a tutti i mestieranti, a tutta la schiuma infetta della società italiana. «È dal Piave, è da Vittorio Veneto, è dalla Vittoria, sia pure mutilata dalla diplomazia imbelle, ma gloriosissima, che si dipartono i nostri gagliardetti. È dalla riva del Piave che noi abbiamo iniziata la marcia che non può fermarsi fino a quando non abbia raggiunto la mèta suprema: Roma. E non ci saranno ostacoli né di uomini né di cose, che potranno fermarci». Tutta l’Italia risponde impetuosa allo squillo di Mussolini. Intensifichiamo il lavoro. La mèta è vicina. Non mi do tregua. 27 settembre. Ricevo una lettera di Mussolini che è molto preoccupato per la situazione di Parma. Evidentemente a Cremona è stato informato delle assurde conseguenze del patto di pacificazione. Non poteva essere altrimenti. I fascisti rischiano di restare imbottigliati proprio nel cuore della valle padana. Venerdí 29 alla Direzione del Partito presenterò proposte precise. È necessaria una azione radicale. Mussolini mi segnala anche la precarietà ed il pericolo della situazione romagnola, dove qualche volta i fascisti sconfinano dalle direttive che hanno ricevuto. Forse per troppo entusiasmo. Anche qui, del resto, si sconta l’assurdo del patto di pacificazione. Soluzioni artificiose, che complicano le cose invece di chiarirle. Forse anche i repubblicani sono di malumore per il discorso di Udine, dove Mussolini ha precisato la nostra posizione di fronte alla Monarchia. Le preoccupazioni del Duce mi rendono pensoso. Bisogna prevenire qualunque sorpresa. Mando un avviso a Bondi, che è il piú galantuomo, e lo avverto che se i repubblicani non si mettono in linea, noi siamo pronti a sferrare una grossa offensiva. Speriamo bene. Essi sanno benissimo che non sono abituato a promettere senza mantenere. 29 settembre - Roma. Adunanza della Direzione del Partito. Propongo un’azione in grande stile su Parma, perché la situazione è diventata insostenibile. Notizie mie inconfutabili e dirette sull’imbarazzo e il pericolo dei nuclei fascisti a Parma, isola di bolscevismo armato e delinquente, che si ricovera sotto le ali della polizia ed è aiutato da forze oscure della borghesia antifascista. Anche Mussolini giudica la situazione di Parma paradossale e pericolosa per la compattezza dell’Italia centrale. Illustro sommariamente il carattere che dovrebbe avere una azione fascista su Parma col proposito di stroncare per sempre l’organizzazione sovversiva. Bisogna occupare l’oltretorrente con forze adeguate, prima che si inizi qualsiasi movimento fascista di larga portata in Alta Italia. Il progetto è approvato e la sua esecuzione rinviata all’ottobre. Osservo come tutti gli altri problemi secondari del Partito, che una volta ci accendevano di sacro fuoco, oggi ci interessino mediocremente. Piú che mai ho la convinzione che qualche cosa che supera ogni suggestione su obbiettivi parziali stia maturando. In tutti noi è la certezza che il movimento insurrezionale per la conquista integrale del potere abbia la prevalenza. Dio lo voglia! 30 settembre. Ier l’altro un fulmine ha fatto saltare il grande forte di Falconara nell’altura sovrastante il paese di San Terenzio alla Spezia. Vi sono cento morti e quattrocento feriti, gran numero di paesi devastati: sono scoppiate 1200 tonnellate di esplosivo. I giornali sono pieni della stupenda dimostrazione di forza, di coraggio e di resistenza dei fascisti, che sono accorsi all’opera di assistenza. Sul posto lavorano squadre di tutta la Liguria in collegamento con quelle di Carrara, di Massa e della Lunigiana. Gruppi di fascisti spezzini comandati da Bosero hanno compiuto prodigi. Persino Facta si è commosso. Intervistato da qualche giornalista ha fatto i piú grandi elogi nostri. 3 ottobre. Adunata di Modena. Si commemorano i morti del Fascismo modenese. Ne approfitto per il giuramento della legione. È comandata dal console Testa, che ha il senso della organizzazione. Preciso, curante dei particolari, meticoloso, continuativo. La legione è composta di uomini sodi e quadrati come questa terra. Il Fascismo modenese ci ha data una grande dimostrazione di forza. Qui il movimento è plebiscitario. Sempre cosí nei paesi dove il socialismo ha piú imperversato. Prima di tutto, lo scatto delle popolazioni nell’ondata di rivolta è stato piú spontaneo. Poi, lo spirito della massa è piú sensibile ai problemi politici. Vi è come una piú lunga e profonda preparazione dell’ humus sociale. Due bellissimi discorsi subito dopo il giuramento della legione: l’uno di Arangio Ruiz, l’altro di Grandi, che era in una delle sue giornate migliori. Mi si conferma l’impressione che le legioni dell’Emilia sono le piú efficienti. Qui è il grosso dell’esercito fascista. Riserve inesauribili. 3 ottobre (sera). Arrivano le prime notizie dell’occupazione fascista del municipio di Bolzano. Finisce il regno di Perathoner, e dei suoi lanzichenecchi. L’Italia democratica coltivava con rispetto gli agenti del nemico in casa. Avere conquistato il confine geografico e lasciare aperto il confine politico, permettendo che un gruppo di alto-atesini agisse in collegamento stretto coi tirolesi di Innsbruck, ecco una delle tante stoltezze della quale il Fascismo ha fatto giustizia. Bisogna considerare come agenti del nemico e traditori tutti coloro che in Alto Adige lavorano contro l’Italia e quelli che a Roma tengono loro il sacco. Ma la mentalità semplice e netta del tempo di guerra non poteva essere compresa da un uomo come Credaro, che ha combattuto l’intervento insieme con la pattuglia giolittiana, nel maggio del ’15. Credaro è finito e con lui quella specie di civetteria umanitaria e altruista con cui i democratici trattavano i mestatori tedeschi. Il tricolore sul palazzo municipale di Bolzano ci garantisce il confine del nord per il giorno in cui dovremo procedere alla conquista di Roma. Per l’alto Adige è come se la guerra fosse finita oggi. Ricevo notizie che il Direttorio del Fascio di Forlí ha denunciato il patto coi repubblicani. Feci bene, quel giorno, a non prendere parte alle trattative e marciare invece per la Romagna con le squadre in testa alla «colonna di fuoco». Sentivo benissimo, fin da allora, che il patto non avrebbe avuto una lunga durata. La realtà si incarica da sola di svalutare e distruggere le situazioni false e forzate. Ma bisogna sorvegliare la Romagna. È un paese singolare, che va trattato con perfetta conoscenza della psicologia delle masse e delle contraddizioni secolari delle passioni politiche che lo travagliano. 4 ottobre. I socialisti hanno deliberato di scindersi in due partiti. L’uno e l’altro cantano vittoria: i serratiani si sentono piú sicuri sul terreno dell’intransigenza, i riformisti su quello della collaborazione. Questione di formule. Con le formule non si va lontano. Il grosso dell’intellettualismo rosso è passato con Turati, Treves, Modigliani, Zibordi, tra i riformisti. Il troncone serratiano conserva invece gli ultimi resti della antica massa. Cervello senza corpo, corpo senza cervello. Sono gli effetti della battaglia fascista. Quello che non ha potuto fare l’idea, ha prodotto la paura. Tradotto in termini chiari, il collaborazionismo significa soltanto questo: che i socialisti italiani desiderano avere a propria disposizione, e possibilmente comandare, le guardie regie e i carabinieri, le prefetture e le questure, contro il Fascismo. Il fatto non fa molta impressione. In altri tempi i giornali sarebbero stati pieni di pronostici. Nessuno osa, oggi, prevedere vicino il giorno in cui Turati governerà l’Italia come Presidente del Consiglio o Ministro degl’Interni. Un Governo antifascista non è neppure immaginabile. A noi non resta che rallegrarci per lo spettacolo pietoso della viltà avversaria. I nemici divisi si combattono meglio. Il paese di Cassano d’Adda è stato occupato dai fascisti, in seguito a una brutale aggressione di sovversivi contro uno squadrista. Grande battaglia a bastonate. Gli uffici pubblici sono stati occupati dai fascisti. So che De Bono è sul posto. Gli ho mandato a chiedere se ha bisogno di qualcosa. Risponde che la situazione è completamente in mano dei fascisti e che nulla gli occorre. Mi dicono che il Generale è piú duro e deciso che mai. 5 ottobre. Ieri la conquista fascista di Bolzano si è completata con una marcia trionfale delle nostre squadre da Bolzano a Trento. È un bel movimento, alla testa del quale sono Giunta, De Stefani, Farinacci, Starace. Anche Trento, che fu la mèta dei nostri ardimenti di guerra e il sogno dei nostri martiri, era aduggiata dalla tetra e umiliante demagogia socialista. La guerra, come un vino generoso, aveva depositato nelle zone redente, all’indomani dell’armistizio, una feccia di uomini di diverse regioni, in parte sfruttatori ingordi della restaurazione economica di quei paesi, in parte speculatori politici di bassa lega. Disfattisti di ogni genere, calunniatori dei nostri soldati e seminatori di odio. Il Governo, come ovunque, restio a intervenire. I fascisti hanno fatto piazza pulita. In questa azione, cosí importante dal punto di vista politico, è mancata soltanto l’osservanza a quella regola militare che fu stabilita a Milano per ogni movimento delle squadre armate. Ricevo una lettera infiammata di De Bono e di De Vecchi che mi chiedono perché non li ho preavvisati degli avvenimenti dell’Alto Adige. Neppure io sapevo nulla. Ho appreso la notizia dai giornali. Evidentemente i nostri amici radunati a Bolzano, presi dall’entusiasmo dell’ora, hanno dimenticato che il Fascismo si è imposta una rigida unità disciplinare. È facile in momenti consimili lasciarsi travolgere da un troppo ardente entusiasmo. Proprio questo manda in bestia De Bono. «Cosí non si fa la guerra» mi scrive «e neppure la rivoluzione». Io sono piú ottimista di lui. So che all’ultimo momento sarà possibile stringere i freni, e che ogni camerata comprenderà il valore della disciplina. Il Fascismo è un esercito tutto passione, impeto e spirito di sacrificio. Certi scatti appartengono ancora alla prima fase del movimento. Il rigore della disciplina non spegnerà queste doti mirabili, anzi ne aumenterà l’efficacia. Ma non si può imporre di colpo. Comunque, l’azione di Bolzano e di Trento è riuscita e ci ha condotto a un gran risultato politico. Il Popolo d’Italia pubblica oggi le disposizioni del nuovo regolamento di disciplina per la Milizia fascista sulle interferenze tra i gradi politici e i gradi militari. È il documento che abbiamo preparato De Vecchi, De Bono ed io e che Michele Bianchi ha approvato: La gerarchia nella Milizia Fascista. «Per rendere piú chiare le disposizioni del nuovo Regolamento di Disciplina per la Milizia Fascista circa le interferenze fra i gradi politici coi gradi militari, riportiamo in quadro gli articoli 35 e 36 del Regolamento: «Art. 35. La scala gerarchica è assegnata ai soli effetti di cui sopra e per regolare le interferenze politico-militari. Resta fermo il principio di cui all’art. 16 circa la sovranità assoluta del l’autorità politica, tenuto il debito conto delle gerarchie ed il carattere di Milizia dell’intiero fascismo. «Art. 36. La scala gerarchica è la seguente: « Comandanti Generali: Capo del Partito - Segretario politico generale. « Ispettori Generali di Zona: Membri della Direzione - Vice-segretari generali - Segretario generale amministrativo - Delegati regionali - Deputati. « Consoli: Segretari provinciali e membri dei direttorii provinciali. « Comando di Coorte: Segretari di Fasci con piú di 500 iscritti e membri dei rispettivi direttorii. « Comando di Centuria: Segretari di Fasci tra 200 e 500 iscritti e membri dei rispettivi direttorii. « Comando di Manipolo: Segretari di Fasci fino a 200 iscritti e membri dei rispettivi direttorii.» Questo regolamento, che è dovuto soprattutto alla pressione dell’energica volontà di De Vecchi, toglie di mezzo una serie di equivoci, che rendevano qualche volta difficile il rapporto tra le gerarchie politiche e le gerarchie militari del Partito. Inoltre prepara i quadri della mobilitazione di domani. Speriamo ora che i Segretari federali stabiliscano, nel dare e nel ricevere ordini, rapporti precisi con gli Ispettori di zona. Ancora allarmi nella stampa ministeriale. Una agenzia ufficiosa pubblica notizie di oscure preparazioni del Partito fascista alla Marcia su Roma. Evidentemente si vuol saggiare il terreno o indurre il Governo a infierire contro le nostre organizzazioni. Abile risposta del Partito: «Il solo fatto che i fascisti insistano per la convocazione dei comizi elettorali politici entro l’anno corrente, allo scopo di dare infine al Paese un Governo in grado di reggere e di guidare la Nazione, urgenza di cui, in uno dei prossimi giorni, si renderà interprete presso il Presidente del Consiglio on. Facta il Segretario generale del Partito Fascista Michele Bianchi, taglia corto a tutte le fantasticherie». Si giuoca a rimpiattino. Questo spettro delle elezioni è piú che sufficiente ad accecare gli occhi dei vecchi parlamentari, che sono già tutti in moto per invocare la nostra alleanza. Con questa lusinga faremo di loro quel che vogliamo. Siamo nati ieri, ma siamo piú intelligenti di loro. 5 ottobre (notte). Mussolini alla «Sciesa» di Milano. Tornano squadristi entusiasti e riferiscono brani dello stupendo discorso. Sono altrettanti colpi di maglio contro il decrepito regime che ci governa: «I cittadini si domandano: quale Stato finirà per dettare la sua legge agli italiani? Noi non abbiamo nessun dubbio a rispondere: lo Stato Fascista!... C’è un’Italia che voi governanti liberali non comprendete piú. Non la comprendete per la vostra mentalità arretrata, non la comprendete per il vostro temperamento statico, non la comprendete perché la politica parlamentare vi ha inaridito lo spirito. L’Italia che è venuta dalle trincee è un’Italia forte, un’Italia piena di impulsi di vita. È un’Italia che vuole iniziare un nuovo periodo di storia. Il contrasto è quindi plastico, drammatico, tra l’Italia di ieri e la nostra Italia. L’urto appare inevitabile. «... Io credo che il Fascismo, nella crisi generale di tutte le forze della Nazione, abbia i requisiti necessari per imporsi e per governare». Questo non è propriamente un discorso elettorale... È un atto d’imperio e di forza. Il Fascismo non può che marciare cosí. 6 ottobre - Milano. Sono arrivato stamane per incontrare Mussolini. Il colloquio che ho avuto con lui resterà indelebile nella mia memoria. Ho sentito la mia anima vibrare all’unisono con la sua. Le sue parole chiarivano i miei sentimenti inespressi, davano forma e potenza alle mie piú recondite aspirazioni, proiettavano luce e sicurezza sull’azione imminente. Colloquio rapido, sui grandi temi. Mi ha interrogato sulle possibilità di successo di una azione rivoluzionaria su Roma. Non voleva garanzie generiche, ma notizie precise, particolari sicuri. Situazioni studiate dal punto di vista del numero e della qualità degli uomini, delle modalità di impiego, dei mezzi disponibili. Esame dei quadri di comando: autorità, energia, fedeltà e decisione dei capi, di fronte a qualsiasi evenienza. Minuziose interrogazioni sull’armamento delle squadre fasciste: dove trovare armi in caso di bisogno immediato? Valutazione dei nostri depositi. Previsioni per colpi di mano. Tutti i fascisti debbono essere armati. Numero di armi che si ritengono indispensabili: mitragliatrici in nostro possesso: necessità di aumentare le dotazioni. Tra le situazioni sospese a cui bisogna provvedere, quella di Parma. È l’ultima roccaforte in mano delle forze antinazionali: rappresenta un luogo di rifugio e un aiuto morale per il sovversivismo italiano. Concorda con me nel piano di azione che gli propongo. Si risale agli argomenti generali. Comprendo dalle sue parole come lo scatto insurrezionale sia deciso ed elaborato nella sua mente da lungo tempo. Per conto mio non ho che una tesi: tutto osare. Gli ho promesso che moltiplicheremo le grandi adunate regionali e provinciali, affinché il Comando generale possa prendere contatto diretto con le forze della rivoluzione. Mussolini era molto lieto. Alla fine mi ha affettuosamente abbracciato e mi ha regalato una fotografia con dedica che mi riempie di orgoglio: « Al mio fraterno amico Italo Balbo, magnifico condottiero delle Milizie Fasciste, in attesa della Marcia suprema, con ammirazione». Queste parole saranno il mio viatico durante i giorni della battaglia. Il Duce, contrariamente alle sue abitudini, mi ha invitato a colazione al Campari. 7 ottobre - Borgo San Donnino. Sono nascosto in una piccola casa colonica a cinque chilometri da Borgo San Donnino. Un nostro amico ha messo a disposizione mia e del Comando generale due o tre stanzette, dove studio e preparo il grande piano d’azione su Parma. De Bono e De Vecchi sono al corrente. Mussolini segue il mio lavoro per mezzo di amici fidati. Sono con me, nel minuscolo Comando che ho istituito, il dott. Caretti di Ferrara, un dattilografo e un disegnatore. Come fu deciso a Roma alla Direzione del Partito e confermato nell’incontro col Duce, l’azione su Parma dovrebbe precedere qualunque avvenimento definitivo del moto insurrezionale. Contatti con fascisti di fiducia di Parma. Vengono qui a ricevere ordini anche i capi delle provincie vicine: Piacenza, Mantova, Reggio Emilia, Bologna. L’investimento delle squadre d’azione sui quartieri sovversivi dell’oltretorrente, deve garantirci con un massimo di rapidità un minimo di perdite: elemento essenziale, la sorpresa. Perciò raccomando a tutti il segreto, persino con i familiari. L’azione potrà incominciare alla mezzanotte del 14. Per quella data, a marce forzate, e coi mezzi piú veloci, almeno duemila fascisti, armati ed equipaggiati di tutto punto, saranno pronti allo scatto. La polizia ha perso completamente le mie tracce. So che mi sta cercando nei luoghi piú strani. Ciò aumenta il mio buon umore, perché mi dà, oltre tutto, la prova che nulla è trapelato. 9 ottobre - Borgo San Donnino. Ricevo giornali e notizie da Bologna. Proprio a Bologna i liberali si sono riuniti a congresso. Delicato pensiero di cui siamo loro grati: è una parentesi gioconda nel faticoso affanno di questi giorni. Tra i fascisti di Emilia — mi dicono i miei informatori — non si parla che delle squadre in camicia kaki e guanti bianchi, che hanno fatto la loro comparsa in questi giorni sulla piazza di S. Petronio. La sfumatura del colore è piena di simbolo. I guanti sono tutto un programma. Si tratta di squadre bene educate e sensibili a certi effetti della paura. A che cosa serviranno? Fino a ieri i liberali hanno battuto sul chiodo che bisogna combattere con le armi legali del Parlamento, della scheda e della stampa. Una squadra d’azione presuppone invece l’azione di piazza. Anche i liberali vogliono allora mettersi nel novero dei fuori legge? Queste camicie kaki sono proprio un frutto fuori stagione. Forse nel ’19, nel ’20 e nel ’21 avrebbero trovato anch’esse qualche cosa da fare, nella battaglia contro i sovversivi. Ma oggi non resta del socialismo che una fungaia vivacchiante sulle rovine. Allora bisogna pensare che le camicie kaki si organizzino contro i fascisti. Ma questa ipotesi fa ridere. Dicono che a Bologna qualche squadrista si sia divertito a spaventarle con uno starnuto, all’angolo delle strade. Sul palcoscenico del «Comunale» di Bologna, durante il congresso liberale, si è visto anche lo Stato Maggiore del nazionalismo locale. I nazionalisti continuano a fissarsi sul gioco parlamentare delle destre. Errore, colossale errore! La destra: ecco un termine che i fascisti comprendono poco. C’è da giurare che essi siano a loro volta poco compresi dalla destra medesima. Questo congresso avrebbe dovuto in realtà creare una piattaforma di governo al piú arido e gretto fra i liberali italiani: al senatore Albertini. Egli posa già da dittatore del Governo forte, di marca liberale. Le figure che hanno circolato al congresso di Bologna non sono che comparse o turiferari, destinati ad avallare il suo piano orgoglioso. Ma Albertini ha ricevuto da Dio un dono singolare: quello di una antipatia irresistibile. Non fa propriamente nulla per rendersi antipatico, anzi cerca di produrre l’effetto contrario: ma lo è cosí per natura. Non c’è nulla da fare. Chi vorrebbe oggi rischiare qualcosa per Albertini? Alla sua candidatura crede forse soltanto il prof. Giovannini. Ma non è difficile darla ad intendere a Giovannini. È l’uomo di tutte le cantonate: eternamente in cerca di conciliare l’inconciliabile. Niente è piú grottesco dell’idealista che si trasforma in macchietta. Tra i congressisti figura Ezio Maria Gray: questo è un bel rebus: a che partito appartiene Gray? Tutti pensavano che fosse un nazionalista: si scopre invece che è socio della Unione Costituzionale di Novara. Gray, all’opposto di Albertini, ha il dono della simpatia. Con questa si salva sempre. Del resto la sua voce tonante ha scosso un poco la pigra atmosfera del congresso. Celesia invece parla con la voce del baco da seta. Si è dimesso dal Fascismo perché iscritto al partito del rinnovamento: ha fatto una bella scoperta! Ma il rinnovamento di Celesia, quantunque egli sia un onesto filofascista, non è la nostra rivoluzione. Un signore gli ha replicato che la simpatia per il Fascismo non deve convertirsi in servitú. Giusto. Anche i servitori debbono essere intelligenti. Che cosa ce ne faremmo dei liberali? I fascisti di Bologna si sono limitati a prendere in giro i loro ospiti. Circolano argute caricature. Ma i liberali sono permalosi e fanno le vittime. Il congresso è finito al canto dell’inno di Mameli: tale quale come a Ravenna, quando le avanguardie repubblicane ripresero in consegna i locali della Casa del Popolo, occupata dai fascisti. Strane coincidenze. 9 ottobre (notte) - Borgo San Donnino. Questa notte, a Rivarolo del Re, rapporto rapido dei capi fascisti di Cremona, Mantova, Piacenza, Parma, Reggio Emilia. Istruzioni precise. Ogni colonna ha il suo punto segnato ed i suoi determinati compiti nell’azione imminente. I capi sono decisi e pieni di fervore. Mi garantiscono l’esecuzione degli ordini al cento per cento. Basteranno poche ore per la dislocazione di queste forze sul teatro dell’azione. Ho detto loro che il colpo di mano su Parma sovversiva, costituisce la prova generale per una piú vasta azione del Fascismo. Parole sufficienti per elettrizzarli. Solo Mussolini conosce lo sviluppo travolgente che il destino prepara alla rivoluzione. Ma tutti sentono che il momento dell’avvio non è lontano. E ciascuno desidera essere pari al compito. Ho visto anche Farinacci. Conversazione animata, a due, con strani presentimenti del futuro, nella quiete solenne della campagna, sotto le stelle. Anche Farinacci ha la sensazione che gli avvenimenti precipitino. Mi garantisce il magnifico spirito offensivo delle squadre cremonesi per l’azione su Parma. Sono pronte a qualsiasi sacrificio. Hanno un solo desiderio: agire. Ho veduto anche Ricci, di Massa Carrara, e alcuni capi del Fascismo della Spezia e di Genova. Mi occorrono poche centinaia di uomini per la riserva. Dico agli amici della Lunigiana che questo compito è riservato a loro. Assicurazione perentoria di Ricci. Mando a tarda notte un messo a Milano con la seguente lettera per Mussolini: Borgo San Donnino, 9 ottobre (notte). «Carissimo Mussolini, «come ti diranno Ponzi e Farinacci, il convegno di stasera ha stabilito le modalità tattiche dell’azione di Parma. Per i borghi Naviglio e Valorio gli obbiettivi non sono ancora stati precisati dagli amici parmensi; per l’oltretorrente il piano è il seguente. «All’alba del giorno fissato occupazione simultanea dei tre ponti Umberto, Caprazucca e di Mezzo, delle Barriere Nino Bixio e D’Azeglio, della Clinica e dei Giardini, in modo che il quartiere sia completamente circondato. Ad occupazione avvenuta si concederà una tregua per l’esodo dei vecchi, bimbi e donne ed estranei, e si inizierà poscia la battaglia che terminerà con l’epurazione di Parma Vecchia e con alte fiamme che saliranno al cielo. Alla truppa che eventualmente intervenisse, i fascisti risponderanno come la truppa rispose ai fascisti nell’agosto. Per quello che riguarda la preparazione morale, tutti sono concordi nel chiederti almeno un’abile corrispondenza da Parma da pubblicarsi sul Popolo e da far riprodurre dal Carlino, Giornale d’Italia e Giornale di Roma, corrispondenza che impressioni l’opinione pubblica per quanto si è commesso e si commette contro di noi. Anche ieri è stato ferito a morte uno dei nostri: ferrovieri fascisti delle altre città e carrettieri cremonesi vengono regolarmente bastonati; la situazione è pressoché insostenibile. La giornata fissata per l’inizio sarebbe sabato (notte dal venerdi al sabato): ti va? I milanesi parteciperanno anch’essi all’azione con i fascisti scelti di Piacenza, Cremona, Mantova, Reggio, Bologna, Modena e Ferrara. Per riserva farò muovere anche Carrara. Vedrai che l’azione riuscirà; l’unico ostacolo, per ora, è nelle finanze. Si potrebbe trovare all’uopo un po’ di quattrini? Io rimango a Borgo a coordinare i piani e a preparare ogni particolare. «Con tanti cordiali saluti. Tuo «F.to Italo Balbo». « Lettera scritta malissimo per molte buone ragioni, non ultima quella dell’ora avanzata e della grande stanchezza...» 11 ottobre - Borgo San Donnino. Ordine fulmineo di Mussolini di sospendere tutto per Parma e di andare a Milano lunedí mattina 16, per una riunione del Comando generale. Mi manda a dire che l’azione su Parma è soltanto rinviata. In caso si potrà riprendere il lavoro di questi giorni tra non molto, se le circostanze lo permetteranno. L’azione doveva incominciare alla mezzanotte di domani. Faccio appena a tempo a dare il contrordine. Questa sera, dopo alcune ore di ansia, sono tranquillo. Le mie staffette hanno raggiunto tutte le località da cui la mobilitazione fascista doveva prendere le mosse. 14 ottobre. Il Popolo d’Italia porta un duro trafiletto nel quale si annuncia che Badoglio ha ricevuto l’ordine di preparare l’Esercito alla battaglia contro il Fascismo. A tale scopo avrebbe incominciato con l’ordinare il richiamo di ufficiali, specialmente del Mezzogiorno e delle Isole, sulla cui fedeltà il Generale crede di poter contare. Inoltre si è iniziata la propaganda fra gli ufficiali, intesa a dimostrare che il Fascismo minaccia la Monarchia. In una riunione tenuta a Roma fra alcuni borghesi del giornalismo, della finanza e della politica, Badoglio avrebbe detto: «Al primo fuoco, tutto il Fascismo crollerà». Mussolini, sul Popolo d’Italia, risponde con uno di quegli articoli che sono taglienti come una spada: «Tutta questa preparazione dovrebbe rendere possibile l’esecuzione del massacro in grande stile. Il generale Badoglio s’inganna. Si è già fatto fuoco sui fascisti. A Sarzana ne caddero 14, a Modena 8. Ora, nella zona di Sarzana, il Fascismo è cosí formidabilmente inquadrato, che dispone di regolari reparti di cavalleria, come documentiamo in questa stessa pagina. Quanto a Modena, il dominio del Fascismo è incontrastato. Noi crediamo che i torbidi propositi del generale Badoglio non avranno mai una realizzazione. L’esercito nazionale non verrà contro l’esercito delle Camicie nere, per la semplicissima ragione che i fascisti non andranno mai contro l’esercito nazionale, verso il quale nutrono il piú alto rispetto e ammirazione infinita... Malgrado tutto noi crediamo che il generale Badoglio si rifiuterà al tentativo inutile di fare il carnefice del Fascismo italiano». È strano come i Generali conoscano poco la psicologia dei loro soldati. Abbiamo le prove ormai, documentatissime, che gran parte dell’Esercito è con noi. Mi è stato portato da Ferrara il rapporto «Zeta» dei nostri fiduciari al Ministero della Guerra. Vi sono notizie interessanti sopra la costituzione dei battaglioni misti che dovrebbero essere impiegati contro di noi: formazioni ibride di carabinieri, guardie regie, guardie di finanza e poliziotti. Aspetto altri particolari sulla loro dislocazione futura. Se il regime conta su queste forze per sferrare l’attacco contro il Fascismo, è segno che non si fida delle forze regolari. Quanto a noi, nemici di questo genere ci lasciano completamente tranquilli. Il Ministro della Guerra Soleri, che è stato tre anni con gli alpini sul fronte, non ha capito niente. 15 ottobre. Piovono le smentite sul caso Badoglio. La Stefani: «Qualche giornale ha accennato ad una speciale missione data al generale Badoglio circa un’eventuale azione di repressione contro i fascisti. Tale notizia non ha alcun fondamento. Il generale Badoglio non ha ricevuto alcun incarico del genere e continua le sue normali occupazioni presso il Consiglio dell’Esercito». Il Giornale d’Italia: «Il generale Badoglio, parlando con alcuni senatori oggi a Palazzo Madama, avrebbe dichiarato di non avere pronunciata la frase attribuitagli e quindi di non nutrire i propositi che hanno suscitato l’articolo». Ne sono contentissimo. Mi sembrava impossibile che un uomo di guerra, un condottiero, come è Badoglio, potesse marciare contro l’Italia giovane e grigioverde del Sabotino, del Piave e di Vittorio Veneto, tutta inquadrata oggi nelle invincibili schiere fasciste. 16 ottobre - Milano. Sono arrivato nel pomeriggio a tarda ora. Súbito al Fascio milanese in via San Marco. Mussolini è in una saletta riservata. Le due o tre stanze che precedono sono vuote e vi montano la guardia alcuni fascisti di fiducia. Trovo Mussolini in conversazione animata con i camerati del Comando generale, De Bono e De Vecchi. Dal modo con cui questo convegno è predisposto e dalle precauzioni con le quali se ne garantisce la riservatezza, comprendo che vi è in aria qualche cosa di grosso. Sopraggiunge Bianchi con Teruzzi, che fa il collegamento con il Comando Generale e súbito dopo vengono introdotti nella sala i generali Ceccherini e Fara. Mussolini, che presiede il convegno, mi dà come sempre l’incarico del verbale. È un onore che mi spetta, perché sono il piú giovane. Non appena Mussolini apre la seduta, De Bono, con la sua rude franchezza di soldato, non nasconde un suo scrupolo di ordine gerarchico: domanda che cosa sono venuti a fare i generali Ceccherini e Fara, che sono fuori dalle supreme gerarchie militari fasciste. Afferma che il Comando generale non si può allargare senza pericoli. Mussolini risponde che nel fatto rivoluzionario crede utile vi siano Generali in divisa, alla testa dei gruppi insorti. De Bono si convince, e poiché Mussolini lo assicura che non vi saranno interferenze col Comando generale, né duplicità o moltiplicazione di poteri, dichiara che non ha nulla in contrario. Ceccherini e Fara chiedono di ritirarsi, ma De Bono afferma che le sue osservazioni avevano un puro carattere pregiudiziale, e non toccavano le persone: anzi esprime la sua maggior fiducia nei due camerati e si dice ben lieto di averli agli ordini. Mussolini entra allora nel merito della questione. Con una esposizione chiarissima, a larga sintesi, dichiara che gli avvenimenti precipitano e che il Fascismo può essere, da un momento all’altro, condotto nella necessità di iniziare il movimento insurrezionale. Pensa che questo debba convergere in una marcia su Roma, con la contemporanea occupazione della città, per costringere il Governo a cedere i poteri e indurre la Corona ad affidarli a un Ministero fascista. Aggiunge che non si può attendere una soluzione parlamentare che è contro lo spirito e gli interessi del Fascismo. Le manovre di questi giorni servono di diversivo per l’opinione pubblica e per lo stesso Governo. Soltanto la conquista diretta del potere può essere considerata una soluzione degna del nostro movimento, che ha agito al di fuori e al di sopra delle leggi di un regime decrepito. Qualunque altro sbocco tradirebbe lo spirito delle giovani generazioni che vogliono rinnovare l’Italia, e sarebbe una ingiuria ai nostri morti. Noi non dobbiamo arrivare a un mutamento di governo, ma a una trasformazione del regime: evento storico che non si può compiere per le vie normali. Non scenderemo a compromessi: faremo valere la nostra forza. Domanda ai presenti, facendo obbligo di una assoluta franchezza, se ritengono le forze militari del Fascismo pronte, moralmente e materialmente, per il cómpito rivoluzionario. De Bono e De Vecchi, che, come me, hanno in queste settimane visitato personalmente tutti i centri della loro zona, ispezionato le legioni e preso contatto diretto con gli uomini, affermano che, secondo la loro impressione, le forze fasciste non sono ancora pronte e giudicano necessario aspettare, ad ogni modo, qualche tempo. Io mi dichiaro preoccupato per la piega che hanno preso in questi ultimi giorni gli avvenimenti politici. Ritengo pericolosissimo ogni indugio. Le manovre dei vecchi partiti parlamentari si fanno piú serrate. Anche non volendo, il Fascismo minaccia di restare prigioniero dell’intrigo che si ordisce ai suoi danni con la trappola delle elezioni. Penso che se non tentiamo subito il colpo di stato, in primavera sarà troppo tardi: nel tepore di Roma, liberali e sovversivi si metteranno d’accordo: non sarà difficile al nuovo Ministero predisporre piú energiche misure di polizia e compromettere l’Esercito contro di noi. Oggi godiamo del beneficio della sorpresa. Nessuno crede ancora seriamente alle nostre intenzioni insurrezionali. Insomma, tra sei mesi, le difficoltà saranno decuplicate. Meglio tentare oggi l’azione definitiva, anche se la nostra preparazione non è completa, piuttosto che domani, quando insieme con la nostra sarà completa anche la preparazione degli avversari. Ad ogni modo oggi le legioni dell’Emilia sono inquadrate perfettamente, e sono ricche di un magnifico spirito offensivo. Ne garantisco personalmente la disciplina e l’efficienza anche dal punto di vista degli armamenti. Quanto alle legioni della Toscana, è nota una certa loro irrequietezza: ma si possono ritenere pronte all’azione: sono comandate da capi superbi. Questo nucleo tosco-emiliano, già imponente per numero, già esperimentato nelle frequenti mobilitazioni regionali e non ignaro del fuoco, costituisce una massa d’azione a completa disposizione dei capi. Sulle altre legioni d’Italia, ritengo che i risultati saranno superiori alle previsioni. In conclusione: agire ed agire subito. Michele Bianchi appoggia la mia tesi, aggiungendo stringenti argomenti di ordine politico. Mussolini si dichiara d’accordo con noi e la sua opinione trascina senza alcuna ulteriore resistenza quella di De Bono e di De Vecchi. Il Duce conclude questo rapido esame affermando che non si può ancora decidere se l’insurrezione debba essere immediata, ma ritiene che si possa e si debba iniziare subito, qualora l’occasione si presenti: propone di rinviare la precisa designazione del giorno dello scatto insurrezionale dopo la rassegna delle forze fasciste che si terrà a Napoli il 24 ottobre. Si passa all’esame delle modalità dell’azione. Mussolini è del parere che si debbano fare i grandi concentramenti delle legioni impegnate per l’azione rivoluzionaria nell’Emilia, nella Toscana e nelle Marche, e che da queste regioni, per tre strade convergenti, si debba marciare su Roma. De Bono e De Vecchi, d’accordo con Fara e con Ceccherini, trovano che far compiere a colonne cosí numerose una marcia di centinaia di chilometri, lungo l’Italia, può rendere problematica la riuscita. Io assicuro il Capo, per l’esperienza che mi sono fatta in questi ultimi mesi, che qualunque adunata riesce sempre, purché si diano alle forze fasciste ordini di concentrarsi alla spicciolata: i fascisti arrivano, in qualunque modo, al posto designato. Credo opportuno fissare località prossime a Roma, da raggiungersi coi mezzi normali o eccezionali. Viene allora deciso che si concentrino tre colonne: una nei dintorni di Civitavecchia, per le forze della Toscana, della Liguria e dell’Italia settentrionale: una presso Monterotondo, per le forze dell’Emilia, del Veneto e della Lombardia: una a Tivoli, per le legioni fasciste delle Marche, dell’Abruzzo, del Lazio e del Mezzogiorno. Dovrebbe essere fissata la sede del Comando generale e la sede della riserva. Per il Comando una buona zona sembra Perugia. Non conosciamo però benissimo la situazione morale dei fascisti e della città. Viene deciso che io vi andrò il 22 e riferirò sulle possibilità che la città offre dal punto di vista non soltanto militare ma anche politico. Se il Comando generale verrà fissato a Perugia, il comando della riserva potrà essere stabilito a Foligno. Tutto è subordinato al mio rapporto sulla situazione umbra. Si passa ad esaminare la disciplina e la responsabilità dell’azione. Mussolini spiega che il Partito dovrà cedere i poteri a un Quadrumvirato composto dai tre Comandanti generali — De Bono, De Vecchi e Balbo — e dal Segretario del Partito, Michele Bianchi. Nel momento in cui starà per incominciare l’azione militare, tutte le gerarchie politiche scompariranno, sia quelle nazionali sia quelle locali. Il Comando militare subentrerà con pieni poteri. Il Capo ha già preparato il proclama da lanciare ai fascisti di tutta Italia, proclama che sarà firmato dal Quadrumvirato. Con nostro sommo stupore ce lo legge. Meraviglioso! Ha pensato a tutto: ha predisposto tutto. Dal mio incontro del giorno otto ad oggi la sua mente ha lavorato. Il proclama ci dà un brivido di commozione: «Fascisti! Italiani! «L’ora della battaglia decisiva è suonata. Quattro anni fa, l’Esercito nazionale scatenò di questi giorni la suprema offensiva che lo condusse alla vittoria: oggi, l’Esercito delle Camicie Nere riafferra la Vittoria mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria del Campidoglio. Da oggi Principi e Triari sono mobilitati. La legge marziale del Fascismo entra in pieno vigore. Dietro ordine del Duce i poteri militari, politici e amministrativi della Direzione del Partito vengono riassunti da un Quadrumvirato Segreto d’Azione con mandato dittatoriale. «L’Esercito, riserva e salvaguardia suprema della Nazione, non deve partecipare alla lotta. Il Fascismo rinnova la sua altissima ammirazione all’Esercito di Vittorio Veneto. Né contro gli agenti della Forza pubblica marcia il Fascismo, ma contro una classe politica di imbelli e di deficienti che in quattro lunghi anni non ha saputo dare un governo alla Nazione. Le classi che compongono la borghesia produttiva, sappiano che il Fascismo vuole imporre una disciplina sola alla Nazione e aiutare tutte le forze che ne aumentino l’espansione economica e il benessere. Le genti del lavoro, quelle dei campi e delle officine, quelle dei trasporti e dell’impiego, nulla hanno da temere dal potere fascista. I loro giusti diritti saranno lealmente tutelati. Saremo generosi con gli avversari inermi. Inesorabili con gli altri. «Il Fascismo snuda la sua spada per tagliare i troppi nodi di Gordio che irretiscono e intristiscono la vita italiana. Chiamiamo Dio Sommo e lo spirito dei nostri cinquecentomila Morti a testimoni che un solo impulso ci spinge, una sola volontà ci raccoglie, una passione sola ci infiamma: contribuire alla salvezza e alla grandezza della Patria. «Fascisti di tutta Italia! «Tendete romanamente gli spiriti e le forze. Bisogna vincere. Vinceremo. «Viva l’Italia! Viva il Fascismo! « Il Quadrumvirato». Ciascuno di noi frena una specie di furor sacro che lo invade. I visi si fanno seri e duri. Prendiamo impegno solenne di mantenere il piú scrupoloso silenzio, anche con i piú intimi camerati, sulle deliberazioni che oggi sono state prese, e ci salutiamo pieni di fede certa nell’avvenire del Fascismo. Accompagno Mussolini a casa, in carrozza, e, per rompere un poco l’incanto delle ore che abbiamo trascorso e scaricare l’emozione che si incide sui nostri volti, tengo di buon umore Mussolini con discorsi allegri, beffando noi stessi e i nostri compagni. La fronte del Capo si schiarisce. Compare un sorriso alle sue labbra. Finalmente ride di gusto. Lo saluto scherzosamente col titolo di «Signor Presidente del Consiglio». 18 ottobre - Bordighera. De Bono, De Vecchi ed io ci siamo rifugiati in questo angolo ridente della riviera, all’Hôtel du Parc, che in questa stagione è deserto. Siamo qui con l’aria di gente che sta facendo una cura di riposo e di sole. Ma è un problema trovare in Italia una località che sia per noi solitaria. Appena arrivati, abbiamo incontrato il vecchio generale Etna, già comandante del Corpo d’Armata di Torino, defenestrato da Nitti, amico di De Bono e mio valoroso comandante in guerra. Non ci ha chiesto e non ci chiede che cosa siamo venuti a fare a Bordighera. È uno spirito altamente patriottico. Nella sfera candida delle altezze alpine, ha temprato la sua anima di uomo altrettanto energico quanto riservato. Ma il suo silenzio ci fa comprendere che non gli sfugge la delicatezza del compito che ci assorbe per ore e ore. Lo abbiamo invitato a colazione e a pranzo. Commoventi rievocazioni alpine. Con noi sono anche Teruzzi, che tiene il collegamento col Partito, il colonnello Sacco, amico inseparabile di De Bono, che ha preso le funzioni di segretario del Comando generale, e il tenente Cerruti, uno dei nostri ufficiali piú fidati, che fa da aiutante. Dall’alba al tramonto, appartati in una delle nostre stanze, esaminiamo minutamente con scrupolo, da tutti i punti di vista, regione per regione, le forze fasciste del paese, il loro inquadramento, i loro ufficiali, il loro armamento. Fatto questo primo lavoro, predisponiamo i piani per le colonne che debbono marciare su Roma: per quella di Santa Marinella è designato Perrone, assistito da Ceccherini; per Monterotondo destiniamo Igliori, assistito dal generale Fara, per Tivoli Giuseppe Bottai. Dobbiamo ora decidere per i comandi minori. La scelta non è facile, perché a proposito di valutazioni, la maggior parte degli archivi è nella nostra testa. Ma per fortuna, io ho una memoria di ferro che sbalordisce i miei amici e De Vecchi e Teruzzi mi seguono a ruota. Ho anche una conoscenza personale della mia zona, che arriva spesso ai nomi dei fascisti piú umili. Giunge un invito per andare a pranzo dalla Regina Margherita, la cui bianca villa erge la fronte tra ciuffi di verde, a specchio di un mare limpido e calmo, nell’incanto di questa natura paradisiaca. Conosciamo tutti l’alto e vibrante patriottismo della vecchia Regina, il cui fascino ha incantato i poeti. Ma io so anche che il suo stile, nella artistica villa ove trascorre giorni sereni, appartata e discreta, non cessa di essere regale. De Bono e De Vecchi possono accettare: non io, che ho nella valigetta il puro necessario per il viaggio e non possiedo altro che questo unico vestitino grigio. Evidentemente non è la tenuta adatta per presentarsi alla Regina Madre. Vanno i miei camerati, che al ritorno mi raccontano le straordinarie e commoventi cortesie della Regina. Ella ha avuto la delicatezza di non sfiorare neppure con il piú piccolo moto di curiosità i motivi che ci trattengono a Bordighera. Ma la sua fine intelligenza, ricca di intuito, deve avere squarciato per proprio conto il mistero. De Bono e De Vecchi lo hanno compreso nelle sue parole di addio, quando ha formulato i piú grandi augurii per la realizzazione dei nostri piani «che — sono sue parole — non potevano che essere indirizzati alla salvezza e alla gloria della Patria». Questo episodio ingentilisce la nostra fatica e dà non so quale luce di poesia ai nostri spiriti. De Vecchi non può parlare della Regina senza commuoversi. Vecchio Piemonte. 19 ottobre. Resta deciso che il piano di azione per la Rivoluzione sarà perfezionato dopo l’adunata di Napoli per quando riguarda la data di inizio, i movimenti concomitanti delle colonne mobilitate e l’occupazione nelle singole città italiane. Intanto il programma nelle sue linee essenziali è fissato. L’esercito fascista ci si presenta sulla carta come uno strumento perfetto, senza zone incerte. Ora comincia il momento di agire. Faccio appello a tutte le mie forze. Da due mesi sono una trottola. Si può dire che il mio letto ordinario è sui sofà dei treni. Ma i nervi sono saldi. Il 20 bisogna essere a Firenze, dopo essere passato da Milano e possibilmente da Ferrara: il 22 a Perugia, il 23 a Roma, il 24 a Napoli. Settimana decisiva. I carabinieri a Verona hanno fatto incetta di fez e di camicie nere fasciste. Chissà? Può essere una manovra oscura a scopo di spionaggio. Può essere una misura strategica in vista della costituzione dei battaglioni misti, per eventuali infiltrazioni nelle nostre file. Chi organizza queste trovate non sa però che un fascista vero riconosce un fascista falso a un chilometro di distanza. A fiuto. 20 ottobre - Firenze. Gran rapporto dei Comandanti delle zone di tutta Italia. Sono a Firenze, insieme con De Vecchi e De Bono, anche Michele Bianchi e Giuriati. La riunione ha luogo alle sedici alla sede del Fascio. È stato comunicato alla stampa un breve ordine del giorno per mascherare gli scopi della riunione. Si dice che «il Comando generale ha impartito ordini precisi e tassativi perché la manifestazione di Napoli del 24 ottobre riesca seriamente e degnamente una prova dell’ordine, della forza e della disciplina delle Camicie nere d’Italia». Questo diversivo è riuscito pienamente. C’è qualche allarme per Napoli. Ma in generale si ritiene che il Fascismo si preoccupi di fare soltanto una grande manifestazione politica al congresso. Questo convegno ha invece un’importanza capitale per l’insurrezione rivoluzionaria. Abbiamo comunicato i gradi e i cómpiti di ciascuno. Gli ordini sono tassativi: gli eventi premono; i comandanti militari debbono occuparsi esclusivamente della Milizia; tutte le questioni politiche secondarie, i problemi locali, le questioni di persone e i particolari dell’organizzazione ordinaria del Partito, debbono essere sospesi. Ciascuno si curi dell’affiatamento e dell’armamento dei propri uomini. Particolari preoccupazioni ci dà la quarta zona, che comprende le provincie del confine orientale, Venezia, Treviso, Udine, Trieste, Pola, da cui si temono infiltrazioni slave. Corrono voci anche di movimenti sospetti da parte della Jugoslavia. Essa potrebbe approfittare dei giorni della rivoluzione per un colpo di mano su Fiume. Per questo abbiamo fatto venire a Firenze Giuriati, di cui conosciamo lo spirito fiero e la piú fiera disciplina. A Giuriati è affidato l’incarico della zona del confine. Avrà ai suoi ordini Giunta. 21 ottobre - Firenze. Suddivisione dei comandi dei dodici ispettorati di zona: «1. ZONA: provincie di Porto Maurizio, Genova, Cuneo, Torino, Alessandria, Novara, Pavia: ispettore generale cap. Cesare Forni. 2. ZONA: provincie di Milano, Como, Sondrio, Brescia, Bergamo, Cremona, Mantova: ispettore generale capitano Cesare Forni. 3. ZONA: provincie di Verona, Trento, Bolzano, Vicenza, Padova, Rovigo, Belluno: ispettore generale Italo Bresciani. 4. ZONA: provincie di Venezia, Treviso, Udine, Gorizia, Trieste, Istria, Fiume e Liburnia, Zara: ispettore generale on. maggiore Giovanni Giuriati. 5. ZONA: provincie di Bologna, Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Ferrara, Ravenna, Forlí: ispettore generale maggiore Attilio Teruzzi. 6. ZONA: provincie di Roma, Perugia: ispettore generale medaglia d’oro tenente Ulisse Igliori. 7. ZONA: provincie di Firenze, Siena, Lucca, Pisa, Grosseto, Livorno, Massa Carrara, Arezzo: ispettore generale marchese Dino Perrone Compagni. 8. ZONA: provincie di Aquila, Chieti, Teramo, Pesaro-Urbino, Ancona, Macerata, Ascoli Piceno: ispettore generale on. cap. Giuseppe Bottai. 9. ZONA: provincie di Napoli, Salerno, Caserta, Benevento, Avellino, Campobasso: ispettore generale cap. Aurelio Padovani. 10. ZONA: provincie di Bari, Foggia, Potenza, Cosenza, Reggio Calabria, Lecce, Catanzaro: ispettore generale on. cap. Giuseppe Caradonna. 11. ZONA: Sicilia: ispettore generale cap. Achille Starace. 12. ZONA: Sardegna: ispettore generale (da nominarsi)». Tutti i presenti alla riunione sono convocati al gran rapporto di Napoli il giorno 24. Ivi riceveranno precise disposizioni sul cómpito che loro spetta. La sera trascorre festosamente coi camerati che hanno oramai la certezza di qualche evento storico grandioso. Prima di partire, ricevo una visita di Aldo Borelli direttore della Nazione. Da giornalista svelto com’è, vorrebbe levarmi di bocca qualche notizia assai piú piccante di quelle che sono giunte in redazione per telegrafo e per telefono. Mi dico disposto a fare un grosso servizio al suo giornale. Mi lascerò intervistare. Borelli prende la matita e scrive. Non sa, l’amico mio, che il giornale rende un servigio a me. Non lo sa, ma l’intuisce. Spesso sul suo viso lungo e scavato, che ha mantenuto in Toscana il color bruciato della sua Calabria, passa l’ombra di un sorriso. Prime dichiarazioni generiche sui diritti del Fascismo: « — Se il Fascismo si assume la responsabilità di partecipare al Governo, deve rifiutarsi di passare per la porta di servizio. Tutti i gruppi strillano di volere una politica forte: ebbene, questa non sarà possibile che da un governo nel cui seno i fascisti costituiscano un gruppo rispettabile, se non addirittura la maggioranza. « — Quindi le elezioni sono indispensabili? « — Costituivano e costituiscono ancora la migliore soluzione. « —Altrimenti Marcia su Roma? « — Ma no, ma no. Questa marcia diviene ormai l’ossessione di tutto il pubblico italiano, e comprendo un po’ come le nostre smentite possano ottenere l’effetto contrario. Ma vi è un fatto che nessuno può negare, e cioè che la marcia ideale è in esecuzione da ormai due anni: oggi è giunta alle porte della capitale. Non viviamo piú nei tempi del garibaldinismo trionfante, quando le schiere di Camicie rosse potevano muovere alla volta di Roma. Il giorno in cui si faranno le elezioni la marcia potrà dirsi compiuta. Il Fascismo vuole governare l’Italia dopo averla salvata; ed è questo un diritto che incomincia a trovare un largo riconoscimento in tutta la nazione». Borelli incalza. Vuol sapere a che cosa serve l’organizzazione militare del Fascismo, che egli chiama il secondo esercito. Tendo a dimostrargli che è una garanzia di pace. Primi ad esserne soddisfatti dovrebbero dimostrarsi i borghesi e persino gli antifascisti: «... abbiamo voluto evitare il pericolo della incontrollabilità del fenomeno squadrista divenuto colossale e rimasto nella conformazione primitiva. Perciò questa trasformazione dovrebbe tranquillizzare: abbiamo inteso e intendiamo di prevenire tutti i pericoli offerti da una massa non completamente disciplinata e priva di ogni responsabilità. Il nostro sforzo massimo sarà rivolto al consolidamento di rigide gerarchie nelle quali crediamo si debba rafforzare anche il rinnovato Stato di domani. L’esercito fascista se si perfezionerà, come non dubitiamo, e se lo Stato saprà assorbirlo e sfruttarne tutte le magnifiche energie, preparerà l’avvento della nazione armata. « — Può dirmi qualcosa sulla organizzazione interna? « — L’esercito fascista ha voluto seguire la denominazione romana nei suoi reparti ed abbiamo cosí «manipoli», «centurie», «coorti», «legioni», e «gruppi di legioni»; ormai questa organizzazione si è realizzata in tutta l’Italia. L’adunata di Firenze rispondeva alla sola necessità di mettere in diretto contatto gli Ispettori di zona col Comando generale della Milizia allo scopo immediato di preparare la solenne adunata di Napoli. «... — Allora ammette che l’esercito fascista possa essere abolito da un governo fascista? « — Non abolito, ma trasformato ed utilizzato per i superiori interessi della nazione. Da un governo fascista l’Italia deve attendersi le piú ardite riforme, che saranno quelle che la condurranno alla sua salvezza. Riforme e severo regime di vita, che eliminino le preoccupazioni di polizia, affinché tutte le energie possano essere rivolte nel campo del lavoro, poiché crediamo alla ricostruzione nazionale soltanto attraverso affrettati ritmi di attività non piú intralciati dagli attuali delittuosi sistemi governativi. « — Napoli segnerà gli obbiettivi immediati del Fascismo? « — Gli obbiettivi sono già segnati da tempo ed il discorso di Udine li ha chiarificati. A Napoli si svolgerà una grandiosa adunata che assume straordinaria importanza essendo la prima del meridionale. Avremo poi il Consiglio Nazionale, i cui lavori sono già fissati dall’ordine del giorno. « — Crede che Napoli accolga simpaticamente i fascisti? « — Ne sono sicuro; l’ambiente non è ostile e la nostra penetrazione nel Mezzogiorno si è affermata con la lotta economica per il porto di Napoli e ha prodotto una larga messe di simpatie al nostro partito. Anche Nitti ha virato di bordo col suo ultimo discorso: ma il vecchio filibustiere ha poco da sperare dal Fascismo. Ossia, sí; può sperare in un plotone d’esecuzione che cancelli l’onta del Ministro dei disertori». Questa sparatina finale, dopo tanta saggezza pantofolona, era necessaria affinché il pubblico comprenda che non ho fatto una indigestione di camomilla. Questa notte farò una fugace comparizione a Ferrara. Voglio abbracciare i miei genitori. Chissà quando e come li rivedrò. 22 ottobre - Perugia. Adunata delle Camicie nere dell’Umbria e della Sabina. Inquadramento di diecimila fascisti in piazza d’armi. Messa al campo, alla memoria dei caduti. Patriottico discorso di un prete, don Sodini. Passo in rivista le squadre: superbe. Il Fascismo umbro per fervore e per slancio rassomiglia a quello emiliano. Gente di prim’ordine. Sono al mio fianco Igliori, comandante di zona, e Graziani, console delle legione di Perugia. Immenso corteo davanti al monumento dei martiri del ’59. Squadre disposte in ordine perfetto. Pronuncio la formula del giuramento: la legione giura. Appello dei caduti. Ardente discorso dell’on. Lupi. La giornata di oggi ha una grande importanza per il Fascismo umbro. Seguo da lontano le squadre che si avviano cantando giú per i pendii verdi dei colli. Maggiore importanza però l’adunata di Perugia ha per la sorte della rivoluzione. Mi sono convinto che questa è la città ideale come sede del Comando. Chiedo minuti particolari sull’indole e l’entità delle forze di cui il Governo dispone. Non c’è da preoccuparsi. Il colpo di mano sulla città può compiersi rapidamente e con la certezza del successo. La popolazione è tutta fascista. Non vi sono pericoli di sorprese. Il Fascismo umbro è ricco di uomini intelligenti ed audaci. Avremo in loro dei preziosi collaboratori. La sede del Comando può essere stabilita all’albergo Brufani che per la sua stessa posizione sembra designato allo scopo. Provvedo subito ad informarne i colleghi del Comando generale e Michelino. 23 ottobre - Roma. Giornata di lavoro intenso alla Direzione del Partito. Questa vigilia sembra interminabile. Staffette che arrivano, ordini che partono. Lettere innumerevoli. Incontri con camerati di ogni regione d’Italia. Bisogna partire per Napoli. 23 ottobre (notte) - Napoli. Pare che tutta Italia si riversi verso la metropoli partenopea. La stazione di Termini, a Roma, era allagata di Camicie nere. Siamo partiti nel pomeriggio, De Bono, De Vecchi ed io. Siamo nello stesso compartimento, assediato da fascisti di tutte le regioni d’Italia che vengono a salutarci. Abbiamo inaugurato la divisa di Comandanti generali: camicia nera coi gradi sulla manica: l’aquila con tre stelle. Io porto i miei pantaloni di guerra, e attorno alla vita la fascia donatami dalle donne di Molinella sulla quale è ricamato un mulino con la scritta: «oggi il mulino per l’avvenire macina l’evento». Baroncini, con qualche amico di Bologna, mi punzecchia per questa divisa di generale che forse è un po’ teatrale. Ma mentre faccio appello al mio spirito per non lasciarmi battere in arguzia, faccio osservare che non dobbiamo dimenticare la guerra. Anche la forma ha la sua importanza per stabilire una gerarchia. Contrasto tra due opposte mentalità. Altra cosa è l’azione di piazza, il comizio e il seggio elettorale, altra cosa è una azione organizzata che si propone la conquista del potere. Con l’improvvisazione e col disordine non si fanno le rivoluzioni: bisogna che questi nostri fascisti se ne convincano e si abituino a guardare la realtà con occhi diversi. Padovani ha organizzato per noi un solenne ricevimento alla stazione: musica e squadre d’onore. Passiamo in rivista i reparti e andiamo all’albergo Excelsior, dove è stato predisposto per De Bono, per De Vecchi e per me un appartamento comunicante. Sbarriamo le porte. Continuiamo nel nostro lavoro incessante. Faccio chiamare Chiarini, organizzatore capo dei ferrovieri fascisti. Lo interroghiamo a lungo. Ci informa sulla situazione ferroviaria italiana, sulla possibilità di formare treni con personale nostro, scelto e fedele, di interrompere le linee sulle quali possono essere avviati i rinforzi governativi, sui problemi, insomma, delle comunicazioni in rapporto con la Marcia su Roma. Resta deciso che egli venga aggregato al Comando generale. Altro interrogatorio a Postiglione e Civelli che dovranno funzionare da Intendenti presso le colonne della Marcia per provvedere ai servizi logistici ed evitare devastazioni e saccheggi, che sono purtroppo tanto frequenti nei periodi rivoluzionari e finiscono per guastare le cause piú sacre. Anche Postiglione e Civelli sono aggregati al Comando generale. 24 ottobre - Napoli. Non scrivo nulla della adunata di oggi. Perché appartiene alla storia. Giornata trionfale per Mussolini, che ha sentito vibrare intorno a sé l’anima della intera Nazione. Egli ha pronunciato le parole fatali che decidono la sorte del nostro movimento. Può fare dei fascisti quello che vuole. Quando dopo lo storico discorso al Teatro San Carlo, e dopo l’epico indimenticabile corteo, migliaia e migliaia di squadristi si sono riuniti in piazza del Plebiscito per giurargli fedeltà sino alla morte, egli avrebbe potuto con un cenno lanciarli verso Roma. Quale forza avrebbe potuto trattenerli? Io sono sceso dal palco, mi sono mescolato alla folla, ho ritrovato i camerati dell’Emilia e li ho invitati a battere il tempo scandendo senza interruzione le due sillabe fatali: « Roma». Dopo poco tutta la piazza ripeteva la grande parola. Effetto immenso. Palpito di una moltitudine. Suprema espressione della volontà di un popolo. Questa sera riunione all’Hôtel Vesuvio. Presiede Mussolini. Sono incaricato del verbale, ma non prendo che pochi appunti su moduli telegrafici. Sono presenti i tre Comandanti generali, il Segretario del Partito Bianchi, e i vice-segretari Teruzzi, Bastianini e Starace. Mussolini comunica il piano: le gerarchie politiche del Partito cederanno i poteri alla mezzanotte tra il 26 e il 27 ottobre. In questo stesso momento il Quadrumvirato entrerà in funzione. Tutti senza eccezione di sorta dovranno ubbidire agli ordini che saranno emanati. Si mette in discussione il quesito: si devono prima mobilitare e fare partire i fascisti destinati a raggiungere i luoghi di concentramento delle colonne, oppure bisogna, prima della partenza dei reparti, occupare le città coi loro uffici pubblici? Mussolini è del parere che le due cose si facciano contemporaneamente. Obbiettivi del movimento: la conquista del potere con un Ministero che abbia almeno sei ministri nostri nei dicasteri piú importanti. De Bono, De Vecchi ed io crediamo che si debba procedere alla mobilitazione immediata per arrivare poi sino in fondo. Viene deciso che per venerdí 27 si ordini la mobilitazione occulta: quindi, il 28, scatto sugli obbiettivi parziali, che sono prefetture e questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi, stazioni radio, giornali e circoli antifascisti, camere del lavoro. Una volta conquistate le città, nella stessa giornata, si proceda al concentramento delle squadre sulle colonne designate per la Marcia su Roma: a Santa Marinella, a Monterotondo, a Tivoli. Là dove la conquista e l’occupazione delle città è facile e sicura, perché tutta la popolazione è fascista, come nella valle Padana e in Toscana, si lascino pochi fascisti di guardia alle posizioni: tutto il resto si invii ai concentramenti; dove invece la occupazione della città non sia possibile o si presenti problematica, non si tenti neppure l’assalto agli uffici pubblici e si mandino tutti i fascisti verso i concentramenti delle colonne. Il piano dovrà svilupparsi secondo l’ordine stabilito a Milano e Bordighera, e al comando degli ufficiali designati a Firenze. La mattina del 28 scatto sincrono delle tre colonne sulla Capitale. Nella stessa mattinata del 28, sabato, sarà pubblicato il proclama del Quadrumvirato, da Perugia, dove avrà sede. Nel caso s’incontrasse una resistenza armata del Governo, evitare, fin che è possibile, uno scontro coi reparti dell’Esercito, verso i quali occorre manifestare sentimenti di simpatia e di rispetto: neppure accettare l’aiuto che fosse eventualmente offerto alle squadre d’azione dai reggimenti. Questa eventualità sarà presa in considerazione dal Quadrumvirato soltanto in caso di conflitto. Saranno diramati in proposito ordini precisi. In definitiva non cedere davanti a nessuna opposizione e raggiungere Roma a tutti i costi. Quanto alle armi, i Quadrumviri hanno già individuato due o tre depositi, sui quali può essere compiuto un colpo di mano. Comunque i fascisti potranno procedere al disarmo dei piccoli distaccamenti dei carabinieri nella campagna. Azioni particolari sono previste per Milano, Torino e Parma. Da sabato il lavoro sarà sospeso in tutta Italia. Durante le giornate della insurrezione tutte le città saranno imbandierate. Particolari ordini saranno dati per le regioni di confine, dove devono essere strettamente osservati gli elementi allogeni e impedite ad ogni costo le infiltrazioni slave, occupando i passi alpini. Comunico per conto mio di avere preparato squadre di arditi che dovranno stabilirsi a Roma per creare panico nel caso che la città resistesse alla invasione delle Camicie nere. La riunione termina senza cerimoniale, con alcune frasi secche di Mussolini. Ciascuno esce salutando romanamente, in silenzio. Ma gli occhi sfavillano. All’albergo, ove rientro in fretta, trovo il gen. Baistrocchi, venuto in cerca di De Bono. Egli ci afferma che i reparti dell’Esercito dislocati nel Mezzogiorno, seguono con grande simpatia il movimento fascista. Fuori, per la città illuminata e festante, sciamano le Camicie nere. Tutta Napoli ne brulica. Alalà e canti fascisti. 25 ottobre (mattina) - Napoli. Gran rapporto del Comando al Fascio di Napoli. Viene dato ad ogni Comandante di zona l’ordine di partenza immediata per il raggiungimento della propria sede e le disposizioni per la mobilitazione occulta del 27. Pochi discorsi. Il tempo non lo permette. Ma questa gente non ne ha bisogno. Ad uno ad uno ricevono la somma che Marinelli ha predisposto per le spese della mobilitazione: venticinquemila lire. Piccola somma in confronto all’enorme cómpito: trasportare migliaia e migliaia di fascisti a una giornata di marcia da Roma. Ma il denaro in questo caso è proprio il particolare meno importante. Vi supplisce la volontà. L’emozione è contenuta ma profonda. Io stesso vedo nella sala Forni e Giunta: l’uno discosto dall’altro; per recenti dissidi di carattere personale, non si salutano piú. Approfitto dell’occasione per invitarli a riconciliarsi e ad abbracciarsi. Vi è nella sala un’atmosfera di fervore quasi religioso. Forni e Giunta ne subiscono il fascino. Al mio invito si buttano l’uno nelle braccia dell’altro. La pace è fatta. Partono subito tutti: Forni, Bresciani, Giuriati, Teruzzi, Igliori, Perrone, Bottai, Caradonna, Giunta, Starace. Ciascuno di loro porta con sé i comandanti delle legioni. Partiranno anche i segretari federali. Starace starà a Verona e si occuperà principalmente della difficile situazione Trentina e Alto Atesina costituendo col Polesine una riserva d’uomini per Milano. Il Congresso, che oggi dovrebbe tenere la prima riunione, resta semideserto. Ma vi sono gli ostinati: la gente che ha preparato il discorso e non vuole rinunciarvi. Piove. Michele Bianchi presiede, dando segno d’impazienza. Eppure bisogna che la commedia del Congresso continui ancora, per lo meno fino a tutto domani. Soltanto cosí potremo ingannare il Governo e l’opinione pubblica. Mentre De Bono, De Vecchi ed io teniamo un’altra riunione al Fascio di Napoli, mi viene annunciato il messo del nostro fiduciario al Ministero della Guerra. Egli porta con sé una copia degli ordini emanati poche ore prima dal Ministro: riservatissimi, ma non abbastanza per essere ignorati dal Comando generale fascista... Risulta che la formazione dei battaglioni misti è ancora in alto mare. Sono stati dati in proposito ordini ai Corpi d’Armata. Ma noi sappiamo come queste cose procedono sotto il regime della burocrazia militare. Possiamo dunque stare tranquilli. L’Esercito non ci impressiona. È molto piú nostro che di Soleri! 26 ottobre - Roma. Ho convocato in piazza San Claudio, presso la Direzione del Partito, le squadre degli arditi ai quali spetterà il cómpito dell’azione terrorista nel caso di una difesa ad oltranza delle forze del regime dentro la Capitale. Sono 250 divisi in 25 squadre. Nessuno è informato dei loro nomi e dei loro cómpiti. Neppure i dirigenti del Fascio romano. Sono armati di bombe e spezzoni e hanno a loro disposizione ben quattro lanciafiamme. Dovranno attaccare, se sarà necessario, i centri vitali della resistenza governativa a cominciare dal Palazzo Viminale. Il loro intervento dovrà essere assolutamente inaspettato e fulmineo, gettare il disordine e la paura nei gradi alti e bassi degli uffici statali, rendere difficile insomma e pericolosa la vita del Governo a Roma. Dovranno circolare vestiti elegantemente, alloggiare in alberghi di primo ordine e non dare assolutamente alcun sospetto. Ogni squadra ha un punto di ritrovo, parola d’ordine, collegamenti con le squadre dei camerati. Determinati punti della città dovranno essere guardati a turno. Occorrerebbero fondi. Ma qui si combatte col centesimo. Non ho un soldo in tasca quantunque ieri, insieme con De Bono e con De Vecchi, per finanziare la rivoluzione abbia firmato e consegnato a Civelli e Postiglione un impegno per tre milioni di lire. Ricorro a Marinelli, il tirchio. Finalmente le squadre ricevono il denaro necessario per il loro mantenimento nei diversi alberghi, pensioni e case private della città (poche migliaia di lire). 26 ottobre (sera) - Perugia. Dopo avere impartite le ultime disposizioni ai camerati che sono ancora a Roma, sono partito nel pomeriggio per Perugia. Non è stato facile eludere la sorveglianza della polizia. De Bono ed io volevamo fare il viaggio insieme. Ma le nostre due barbe erano troppo facile segno di riconoscimento. De Bono era particolarmente sorvegliato. Proprio in questi giorni il Ministro della Guerra lo ha invitato o a dimettersi dall’Esercito, con data anteriore alla partecipazione al Comando fascista, o ad assoggettarsi a un consiglio di disciplina. De Bono ha accettato quest’ultima soluzione. Ma nel frattempo la questura non lo abbandona un momento. Siamo andati alla stazione ognuno per proprio conto e ci ritroviamo in uno scompartimento diretto a Terontola. Penso che ormai è inutile preoccuparsi di mantenere il segreto sui nostri viaggi. Tanto domani tutta l’Italia ne sarà informata. Arriviamo a Perugia di notte e occupiamo l’appartamento che Bastianini ha predisposto per noi all’Hôtel Brufani. 27 ottobre - Perugia. Sono riuniti a Perugia tutti i capi del Fascismo umbro. Mentre De Bono e Bianchi predispongono, insieme con Bastianini, Crespi, Sacco, Pighetti, Mastromattei, il console Graziani e gli altri, l’occupazione della prefettura di Perugia, che avrà luogo a mezzanotte, insieme con le poste, i telegrafi, gli edifici pubblici, le porte della città e i nodi stradali che vi conducono, io mi mantengo in collegamento con gli altri centri d’Italia, da cui arrivano continuamente notizie. Giornata di attesa febbrile e di preparazione intensa. Su per le ripide scarpate del colle salgono le squadre dei paesi vicini, sempre piú numerose, e si accantonano nelle località prestabilite. Il prefetto è asserragliato nel suo palazzo, circondato di guardie e di carabinieri. Perugia è letteralmente allagata di Camicie nere. La sera cade sulle dolci valli dell’Umbria che è tutta in moto: mobilitazione silenziosa, di perfetto stile militare. Alle 20 arrivano notizie gravi dalla Toscana. A Pisa i fascisti hanno anticipato il movimento. Pare vi siano stati incidenti gravi per la occupazione di una caserma. Anche a Firenze la situazione è inquietante per la prematura azione delle squadre. Si parla di gravi fatti. La strada per Firenze è sbarrata. Evidentemente è stato gettato l’allarme alle autorità politiche e militari. Viene deciso che, mentre De Bono e Bianchi si occupano della imminente azione a Perugia, io parta per Firenze. Le mie condizioni di salute sono oggi peggiorate. Si è acutizzata l’otite all’orecchio destro e mi dà acute fitte di dolore. Il mio organismo comincia a risentire le conseguenze degli affanni, delle veglie e delle fatiche di questi giorni. Non importa. Mi accompagnerà il marchese Marmini, quale pilota dell’automobile. La macchina è attrezzata a difesa in modo originale. Sui parafanghi vi sono piazzate due mitragliatrici: da una parte e dall’altra si sistemano due fascisti, legati su seggiolini posticci, con l’incarico di manovrarle in caso di bisogno. Non mancano bombe e moschetti. Cosí trasformata, l’automobile è un carro armato che può filare a velocità fantastica. 30 ottobre - Roma. Riprendo il diario interrotto dopo queste giornate che si incideranno per sempre nella storia d’Italia e nel corso avventuroso dei miei ricordi. La sera del 27 lasciai Perugia sulla macchina-fantasma del marchese Marmini. Notte serena e tiepida. La stanchezza e le sofferenze all’orecchio, nonché la previsione della battaglia che stava appena per incominciare, mi conciliavano l’abbandono a quel riposo fugace e di natura strana, tutto scosse, soprassalti e bruschi risvegli, che si può gustare in un’automobile lanciata a velocità pazza. Facevano, però, buona guardia, i due mitraglieri. A un certo punto della campagna toscana, la macchina bruscamente si ferma. Sobbalzo chiedendo: «Che succede?». Uno sbarramento di forze governative — carabinieri, guardie regie o truppe, non potrei precisare — chiudeva la strada a pochi passi da noi. Non c’era tempo da perdere. Ordino ai mitraglieri di far fuoco in alto, tenendo la mira a 4 o 5 metri sopra la testa degli uomini. L’ordine viene immediatamente eseguito. Il fischio delle pallottole produce il miracolo. Tutti si sbandano sui lati della strada: lo sbarramento è rotto e noi passiamo a velocità folle. La strada di Firenze è libera. Appena giunto a Firenze mi dirigo alla Nazione, dove sono stato, qualche giorno prima, intervistato da Borelli. È un giornale amico e il suo direttore è un camerata. Lí saprò notizie sicure della Toscana e potrò vedere i capi fiorentini. Trovo Borelli, come sempre, affettuosissimo, ma inquieto e impaziente. Mi assalta con mille domande: la situazione gli sembra preoccupante. Chiede quali sono gli ordini. Ha l’impressione che non tutto proceda regolarmente. Mi dà intanto le prime informazioni su Firenze. Le notizie fiorentine sono serie. Tamburini ha fatto prigionieri alcuni ufficiali dell’Esercito. È un errore. I fascisti stanno per tentare l’assalto alla prefettura. Ma dentro il palazzo vi è Diaz, cui il prefetto ha offerto un banchetto. Invece è stata dimenticata la stazione ferroviaria, che non è ancora occupata. Il palazzo delle poste e telegrafi è circondato di fuori da gruppi di Camicie nere, ma dentro vi sono le guardie regie ancora padrone dei locali. Vado al Fascio. Trovo Tamburini e gli faccio presente che l’anticipazione del movimento a Firenze e nelle altre città della Toscana ci mette nell’imbarazzo. Tamburini mi spiega che la situazione è precipitata a causa dei paesi vicini: la provincia si è rovesciata su Firenze. Mi rendo conto rapidamente dello stato delle cose e ordino a Tamburini di rilasciare, senza indugio, gli ufficiali prigionieri. Anzi io stesso mi reco ad aprire la stanza dove sono stati rinchiusi, porgo loro la mano e chiedo scusa del trattamento che è stato usato verso le loro persone. Confermo che l’Esercito non deve essere immischiato nelle nostre questioni. Il movimento insurrezionale del Fascismo desidera che il suo prestigio e la sua disciplina rimangano intatti. Gli ufficiali mi ringraziano. Quindi proibisco ai fascisti di assaltare la prefettura finché c’è ospite Diaz. Anzi dico loro che organizzino una grande dimostrazione al Duca della Vittoria per le strade di Firenze dove passerà. Ordino che prendano contatto coi ferrovieri fascisti della stazione, il cui nucleo è stato reso edotto delle necessità rivoluzionarie da Chiarini dopo le intese di Napoli, e che sia preparato a qualunque costo un treno speciale per portare Diaz a Roma in qualsiasi momento egli avesse voluto. Quindi vado con Tamburini al palazzo delle poste, dove è urgente che i fascisti prendano il controllo delle linee. Entro io stesso nell’atrio occupato dalle guardie regie, faccio entrare le squadre e con una brusca intemerata ordino alle guardie regie di uscire immediatamente. L’effetto è immediato. Il tono della voce, l’aspetto minaccioso, la presenza dei fascisti inducono le guardie regie a ubbidire senza discutere. Impongo ai fascisti di chiudere le porte del palazzo e di prendere possesso immediatamente delle linee telegrafiche. Ritorno alla Nazione. Qui trovo Ceccherini e Perrone che stanno per partire alla volta di Santa Marinella. Dico loro che non c’è tempo da perdere. Do qualche ultimo ordine e li invito a partire immediatamente, per raggiungere il comando della colonna. Arriva intanto al giornale il prof. Garbasso, sindaco di Firenze. È in frack, elegantissimo, reduce dal banchetto offerto a Diaz in prefettura. Lo rassicuro sulle nostre intenzioni nei riguardi di Diaz e gli comunico gli ordini impartiti ai fascisti. Infatti per le strade si stanno già svolgendo grandi dimostrazioni di popolo al Duca della Vittoria. Da una cabina telefonica della Nazione riesco a mettermi in comunicazione con Milano. Chiedo di Mussolini. Il Duce viene al telefono e alla meglio posso comunicargli le novità e lo stato esatto delle cose, assicurandolo che tutto procede in ordine. La gente nostra già affluisce regolarmente ai posti di concentramento. Il Duce mi sembra soddisfatto. Quindi raccomando ai capi fiorentini che, non appena terminata l’occupazione della città, facciano partire il maggior numero possibile di Camicie nere per le destinazioni prestabilite, e mi accingo a ritornare a Perugia, non prima di avere frettolosamente combinata un’edizione speciale della Nazione, nella quale si danno le piú impensate notizie sulla rivoluzione (come quella del generale Montanari Comandante del Corpo d’Armata di Bari in marcia su Roma alla testa delle sue truppe insieme ai fascisti di Caradonna), allo scopo di creare artificiosi stati d’animo. Ma non posso piú usare la macchina aperta con cui sono venuto. Il dolore all’orecchio mi tortura. Mi portano subito una Lancia chiusa. Parto insieme all’on. Manfredo Chiostri. All’alba del giorno 28 arrivo a Perugia. Per tutte le strade che conducono al capoluogo dell’Umbria, gran movimento di squadre, in bicicletta, in camion, in automobile. La città è completamente invasa. L’albergo è circondato da fascisti armati che montano la guardia. L’ingresso è custodito da mitragliatrici. Alle finestre sacchetti di sabbia. Mi concedo due ore di riposo. Riunione con De Bono, Bianchi, Bastianini, ai quali riferisco le notizie di Firenze e della Toscana. A loro volta essi mi mettono al corrente della situazione di Perugia. Per poco non è avvenuto uno scontro con le truppe per l’occupazione delle poste. Michelino ha occupato questa notte la prefettura senza grossi incidenti. Da qui ha chiamato direttamente al telefono il ministero degli Interni. Il caso ha voluto che proprio Facta si precipitasse all’apparecchio: egli credeva fosse il suo prefetto: Michelino gli ha allora comunicato il forzato cambiamento della guardia alla prefettura di Perugia e l’occupazione della città. In prefettura funziona, come delegato del Partito, il camerata Mastromattei. Arrivano staffette dai concentramenti. Le colonne si stanno formando come avevamo previsto, con l’affluenza delle forze fasciste che raggiungono con ogni mezzo, ma regolarmente, le varie destinazioni. Nel pomeriggio vado a ispezionare il centro di riserva di Foligno. Esso è stato messo agli ordini del generale Zamboni. Questo valoroso ufficiale, mentre io ero a Roma in piazza San Claudio a dare gli ultimi ordini ai miei arditi, è venuto a mettersi a nostra disposizione. Le sue virtú ed esperienze di eroico comandante in guerra ci hanno indotto ad accettare senz’altro la patriottica offerta: è stato destinato in una delle posizioni piú delicate: i 5000 uomini della riserva possono rappresentare la carta decisiva della rivoluzione. Il generale Zamboni m’informa della situazione, che è buona. Mi rendo conto però che la forza della riserva è un po’ limitata. Tra gli squadristi, in semplice camicia nera, è il generale Novelli che non ha voluto mancare all’appello della Patria. Tra i primi arrivati sono ottocento fascisti della zona di Copparo, in provincia di Ferrara, tutti armati di fucile. Incontrarli e salutarli è stata per me una grande soddisfazione. Hanno dato un bell’esempio di energia e di disciplina. Poiché le notizie che abbiamo sull’andamento delle cose non si possono dire ottime, e sembra viceversa che il Governo intenda opporci una resistenza accanita, do l’ordine a Zamboni di assaltare e di impadronirsi di due depositi di armi che sono nelle vicinanze: l’uno a Spoleto, l’altro a Terni. Zamboni sembra preoccupato: — Come? Un ordine simile? È molto grave! — Quando tu eri mio superiore tra gli alpini in guerra, io non mi sarei mai permesso di discuterei tuoi ordini. Zamboni trova che la risposta è perfetta e dichiara di essere pronto a eseguire sull’istante l’operazione comandata. Chiede soltanto un ordine scritto. Avutolo, se lo mette in tasca, e si accinge senz’altro all’esecuzione del difficile incarico. Ritorno a Perugia. È arrivato De Vecchi da Roma per darci il quadro della situazione alla Capitale. Nella ripartizione delle nostre mansioni ha avuto l’incarico di tenere i contatti con l’elemento politico. La situazione a Roma è ancora molto incerta e caotica. Chi annuncia e chi smentisce la promulgazione dello stato d’assedio. Le notizie che De Vecchi ha potuto raccogliere, prima di partire per Perugia, lo dànno come sicuro. Il Consiglio dei Ministri, dietro la suggestione di Amendola e di Taddei, avrebbe indotto Facta a sottoporne il decreto al Re. De Vecchi è ritornato subito a Roma. Noi a Perugia piombiamo nel buio piú assoluto quanto agli orientamenti governativi. Le notizie che arrivano saltuariamente sono però in prevalenza cattive. Pare che il Governo intensifichi i preparativi militari contro di noi. Occorrono informazioni sicure. Da un momento all’altro potremmo restare senza collegamenti. Dall’atteggiamento del Governo e dalle misure che sta per prendere, dipende anche il nostro piano d’azione. Stavamo per mandare a Roma un uomo di fiducia per stabilire un contatto diretto con De Vecchi, quando De Bono e Bianchi mi pregano di partire per ispezionare la colonna di Monterotondo e per una missione specialissima a Roma. Al Comando c’è molto nervosismo. Sappiamo che non tutti i capi fascisti erano fino a ieri decisi per l’azione. Qualcuno la giudicava prematura, qualche altro pensava che fosse preferibile una soluzione parlamentare. Le voci che continuano a giungere a Perugia e si fanno verso sera piú insistenti, dànno per certa una designazione ministeriale nella quale Mussolini non figura come Presidente del Consiglio e dove i fascisti sono associati ad elementi politici eterogenei, in strane combinazioni. La mia partenza per Roma diventa una necessità improrogabile. Parto infatti, non prima di aver firmato un foglio proposto da De Bono, già firmato da Bianchi e da De Bono stesso e che avrebbe dovuto firmare anche De Vecchi, come firmò, in cui noi stessi, depositari di tutti i poteri del Partito e della Milizia, ci impegnano a non posare le armi fino al giorno in cui la situazione rivoluzionaria non sia sboccata in un Governo Fascista presieduto da Mussolini. Firmo questo foglio e via verso Monterotondo. Alle 20 di questa giornata, la colonna di Monterotondo, inquadrata da Igliori, è in piena efficienza. Il nostro camerata ha fatto le cose alla perfezione. La sua gente presenta un magnifico spettacolo di disciplina e di forza. Tutto è scrupolosamente regolare. Le armi non mancano. Igliori mi offre una cena frugale al suo Comando. Dall’altra parte del tavolo, trovo un colonnello di fanteria, che Igliori ha fatto prigioniero perché aveva fatto saltare un tratto di binario sulla linea Orte-Roma, allo scopo di impedire il concentramento dei fascisti del nord a Monterotondo. Il colonnello non si dimostra molto malcontento della sua prigionia. Mi dice che, salvo qualche mala parola al momento dell’arresto, i fascisti sono stati con lui cortesissimi. Si rende, del resto, perfettamente conto della situazione. La guerra è guerra. Riparto per Roma con Chiostri e ho il piacere di constatare che la strada da Monterotondo a ponte Nomentano è tenuta da pattuglie fasciste. A ponte Nomentano sbarramento di guardie regie e di carabinieri con i moschetti puntati: non si passa! Il Governo ha date tassative disposizioni affinché nessuno entri nella Capitale senza il permesso scritto del ministero degli Interni. Chiostri ha la sua medaglietta da deputato; ma neppure questa sembra sufficiente. Alla fine acconsentirebbero a lasciarlo passare. E per me? Io non mi dimostro preoccupato. Levo di tasca il portafoglio, e ostento uno strano lasciapassare che ha la data di quel giorno, intestazione ministeriale e timbro sacramentale: dice cosí: « Il Ministro dell’Interno «Il latore della presente è autorizzato a circolare in vettura automobile». (Bollo del Ministero Interni) « Roma, 28 ottobre – 1922. «Per il Ministro «(F.to Fumarola)» Il documento produce il suo effetto. I militi fanno largo e la nostra macchina attraversa il ponte sull’Aniene per lanciarsi velocemente verso Porta Pia. Roma mi si presenta in stato di guerra. Pattuglie armate circolano per le strade: carabinieri e guardie regie si recano ad occupare i punti strategici della città: plotoni di soldati con l’elmetto portano mitragliatrici e perfino qualche cannone. Presso i ponti del Tevere, dove, arrivo per un giro rapido di presa di contatto con la realtà, si apprestano cavalli di Frisia e reticolati. Cerco di espletare alla svelta i miei incarichi. Poi vado al Giornale di Roma dove ho dato appuntamento a tre o quattro capisquadra dei miei arditi. Comunico loro che gli avvenimenti precipitano e che poche ore ci dividono da un’azione decisiva. Li trovo pronti a tutto. Quanto alle notizie politiche che si raccolgono al giornale, esse non sono né molto piú chiare né molto piú sicure di quelle che già possiedo. Fino a tarda ora della notte, il Re ha continuato nelle consultazioni. Lo stato d’assedio c’è o non c’è? È stato annunciato e poi smentito. Ma i preparativi militari che si svolgono al Comando della Divisione di Roma, ci dicono che praticamente è in atto. Domani Roma si sveglierà in assetto di guerra, come una città del fronte minacciata dal nemico. Riparto nella notte stessa per Perugia, dove arrivo senza difficoltà. Alla mattina del giorno 29 continua a regnare la stessa incertezza sulla situazione politica. Ma il lavoro del Comando non si allenta. Abbiamo adesso notizie precise sulle nostre colonne che sono al completo: cinquantaduemila fascisti sono alle porte di Roma. Arrivano a Perugia De Vecchi e Grandi. Ci confermano che la crisi dev’essere risolta dentro la giornata. Bene; in caso contrario, nel giorno stesso, ordineremo lo scatto delle colonne, per marciare su Roma! In questo momento sono in giuoco le piú sfrenate ambizioni, le manovre piú oscure. La vecchia Italia parlamentare ha compreso che la sua ora è suonata e si difende con tutta la forza dell’istinto di conservazione agitando spettri e potenziando le sue influenze. Circolano voci contraddittorie ed incontrollabili. Sentiamo gravare su di noi l’incubo dell’equivoco al quale non sanno sottrarsi molti che reputavamo amici. Non per questo perderemo un istante di mira il nostro cómpito. Il patto che ci stringe è sacro, e non sarà violato davanti a qualsiasi evenienza. De Vecchi parte ancora una volta per Roma. Al Comando si intensifica il lavoro. L’albergo Brufani ha il fantastico emozionante aspetto di un quartier generale alla vigilia di un fatto d’armi decisivo. Continuano ad arrivare e partire i corrieri per prendere e per portare notizie. Sui nostri tavoli sono grandi carte spiegate ove, minuto per minuto, variano le posizioni dei reparti fascisti in marcia verso Monterotondo, Tivoli e Santa Marinella. Si provvede per le armi, per i collegamenti. I nostri ufficiali sono instancabili: giungono qui trafelati, col viso smunto per le notti di insonnia e le corse fatte attraverso l’Italia sotto la polvere e il sole, in motociclette irriconoscibili o in automobili mezzo sgangherate per gli sforzi cui sono sottoposte: non chiedono neppure un bicchier di acqua: e alla stessa velocità ripartono verso le sedi lontane. Intorno all’albergo stazionano i reparti di Camicie nere che si dànno il turno per la guardia al Comando. Il nostro quartier generale è isolato e sicuro. Ma in città non vi sono che fascisti. La truppa è stata consegnata nelle caserme. Tra il Comando generale e le forze dell’Esercito presenti a Perugia, vige una specie di trattato di neutralità. Abbiamo dato appuntamento a De Vecchi a mezzanotte a Narni dove intendiamo trasportare la sede del Comando, se, come tutto fa supporre, l’azione decisiva deve condurci a Roma entro la mattina successiva. Prima del colpo finale vogliamo renderci conto personalmente dello stato del nostro esercito. A Foligno, ove ha sede la colonna di riserva, una notizia si sparge fulminea. Come è giunta? Nessuno potrebbe dirlo. Con quella rapidità con cui circolavano tra i fanti in guerra e giungevano ai comandi, forse prima delle notizie telegrafiche, i dispacci orali della trincea sugli avvenimenti di importanza capitale: Il Re ha dato a Mussolini l’incarico di formare il Governo . Dopo poco la notizia è confermata da Roma. Tra le squadre fasciste corre un brivido di gioia. Visi raggianti, fez che volano, canti di trionfo. Diamo la notizia al concentramento, poi corriamo subito a Perugia, al palazzo dei Signori. Al popolo, che gremisce all’inverosimile la grande piazza sottostante e la raggiera delle strade circostanti, annunziamo che la rivoluzione fascista si è conclusa con poche decine di morti, con la piú superba vittoria. L’entusiasmo tocca il delirio. I fascisti non si stancano di applaudire. Suonano le campane. Perugia vive una delle piú grandi giornate della sua storia. Sera indimenticabile fra le Camicie nere esultanti. Sera di vittoria. Sera di riposo. All’indomani, 30, ognuno di noi raggiunge Roma. Parto per ultimo da Foligno ove sono ritornato per assicurarmi del concentramento della riserva alla Capitale. Non è un cómpito facile farsi il passo attraverso le migliaia e migliaia di fascisti che occupano tutte le strade indirizzate a Roma. Ma è uno spettacolo che conforta il cuore. Questi giovani hanno bene meritato l’ingresso trionfale che li attende. Io arrivo a Roma alle 19 e vado direttamente all’Hôtel Savoia, dove è alloggiato Mussolini. Gran folla intorno all’albergo. Ufficiali al comando di reparti fascisti che dànno l’attenti. Trovo in una sala del piano superiore il nostro Capo circondato da Bianchi, De Vecchi, De Bono e da molti uomini politici. Il suo viso è raggiante. Neppure una parola. Un abbraccio.